venerdì 7 ottobre 2016
Quindici anni fa la tragedia dell'aeroporto di Linate, 118 morti. Pasquale Padovano fu divorato dal fuoco. Ci sono voluti 104 interventi per riplasmare il suo corpo. E altri seguiranno. (Lucia Bellaspiga)
«Io, sopravvissuto all'apocalisse di Linate»
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Pasquale Padovano è un uomo di cera. L’8 ottobre di 15 anni fa, all'aeroporto di Linate, il fuoco ha fuso insieme le sue dita una con l’altra, mani e braccia un tutt’uno con il petto. Ci sono voluti 104 interventi per riplasmare quella cera e darle le forme di un uomo, abbozzare delle dita, riaprire una bocca e due occhi. «Erano le 8 e 10 del mattino. Da allora per noi ogni giorno è l’8 ottobre, una data indelebile». Pugliese di Bisceglie trapiantato a Milano, 63 anni, Padovano è l’unico sopravvissuto al disastro di Linate avvenuto oggi 15 anni fa, la più grave catastrofe aerea in Italia, la seconda a livello mondiale tra le collisioni al suolo. Segnaletica non a norma, radar disattivati, nebbia e una serie di errori umani furono le concause che quel mattino uccisero 118 persone. «Io lavoravo nell’hangar dei bagagli. Improvvisamente sentii un’esplosione terribile. Le due Torri Gemelle erano crollate da meno di un mese, così pensai a un attentato. Mi voltai e ciò che vidi era l’ala di un aereo che entrava nell’edificio. I miei vestiti non li ho visti mentre evaporavano, ho visto solo la pelle colare via dalle mie braccia come una candela». L’aereo scandinavo della Sas con a bordo 110 persone stava partendo per Copenaghen, quando un Cessna privato con quattro passeggeri gli tagliò la strada sulla pista. «L’aereo era già in decollo, così ha urtato il Cessna con il carrello, che si è staccato ed è entrato nel motore facendolo esplodere, proprio mentre sfondava il nostro capannone», ricorda Padovano, che fu investito da un fiume di carburante infuocato. «I miei quattro colleghi morirono lì, io ebbi l’istinto di fuggire fuori in viale Forlanini, alla cieca, sperando che un’ambulanza mi raccogliesse». Era una torcia umana quella che correva sul vialone di Linate, un pezzo d’ala ficcato nel collo, quando l’ambulanza lo raccolse e lo riportò all’infermeria dell’aeroporto per intubarlo. «Supplicai di salvarmi perché mia figlia aveva dieci anni. Poi il nulla...». Da quel momento Pasquale Padovano si sveglierà cinque mesi dopo nell’ospedale di Niguarda. Le fiamme avevano bruciato l’85% del suo corpo, probabilità di sopravvivere nessuna. «Io ero ancora a casa e la notizia la appresi dalla tivù – interviene con dolcezza la moglie Teresa, allora 45 anni –. Al telefono mio marito non rispondeva, ma con quella apocalisse mi pareva normale. Poi qualcuno mi chiamò e mi parlò di piccole ustioni, dicendomi di andare a Niguarda. Ero tranquilla. Invece quando arrivai il medico della rianimazione mi disse che aveva 24 ore di vita, lo abbracciai piangendo, gli chiedevo di salvargli la vita... Prima di portarmi a vederlo cercò di prepararmi, ma non mi aspettavo... Non lo riconobbi, era tutto nero, nelle braccia vedevo le ossa, il cranio era scoperto. Il rianimatore mi avvertì che entro sera si sarebbe gonfiato di liquidi e così fu, era come un pallone. Dopo quattro giorni il primo trapianto di pelle da cadavere, poi uno dopo l’altro quei 104 interventi per staccare le dita, e le mani, e le braccia, fuse nell’addome». È storia vecchia e quotidianamente nuova, perché da 15 anni Padovano tutti i giorni è in ospedale e sua moglie, che ha rinunciato al lavoro, è sempre stata accanto a lui, forte e fragile insieme, come solo una donna che ama sa esserlo. «Tutti si sono sempre stupiti della mia forza – racconta con la voce che trema –. Quel giorno a Niguarda andai nella cappella dell’ospedale e mi rivolsi a Dio, l’ho supplicato di non abbandonarmi perché il mio Calvario era enorme. Dio mi è sempre stato vicino, era a un passo da me, anche oggi la mia forza è Lui». La Sea, la società che gestisce gli aeroporti milanesi, non ha mai fatto mancare niente, così come la sanità pubblica e il Comune, ma il Calvario sarebbe stato enorme davvero. «Tenga presente che la mia ustione era un III grado profondo», spiega il marito, «dopo c’è solo il carbone. Strano che non si siano bruciati gli organi interni, se non è un miracolo poco ci manca». Sfoglia le foto del prima e del dopo, ci mostra l’uomo che era fino all’8 ottobre del 2001, grandi baffi neri sul sorriso allegro, e l’uomo di cera che poi è diventato. Apre le riviste straniere che parlarono del suo caso, pubblicando foto che la moglie non riesce a guardare. Punta un dito sull’immagine del disastro e tra macerie disintegrate spiega: «Qui ero io».

Padovano indica il punto dove si trovava nel momento del disastro aereo all'aeroporto di Linate Ma immedesimarsi è impossibile, tra il prima e il dopo c’è davvero l’apocalisse che ti entra in casa. «Oggi mi sento sicuro solo quando entro in una chiesa, non so dirle perché – confessa Padovano –, entro e prego, allora sono l’uomo più felice del mondo». Il 14 settembre lo ha detto anche a papa Francesco, che lo ha ricevuto in Vaticano, ma prima ancora a Benedetto XVI, e a Giovanni Paolo II: «Chiese al suo segretario chi fossi, gli rispose con una sola parola, Linate. Papa Wojtyla capì subito e pianse mentre poneva la mano sul mio cranio ancora scoperto. Poi mi disse: coraggio che ce la farai. Il dono della fede e mia figlia Anna mi hanno dato l’energia necessaria». E poi c’è stata l’umanità di medici come il dottor Armando De Angelis di Niguarda, «il mio salvatore», o il professor Giorgio Pajardi, chirurgo della mano a Multimedica, grazie al quale un anno fa ha ricominciato a guidare l’automobile e a mangiare da solo. La storia ora continua. Seguiranno tante altre operazioni. Soprattutto continuerà il rimpianto dei morti, «ormai tutti miei figli e fratelli», che sabto mattina, 8 ottobre, in Sant’Ambrogio il cardinale Scola ricorderà nella Messa di suffragio. E continuerà anche la domanda, la stessa da quindici anni: «Nessuno ha pagato per questi 118 morti. In Italia nessuno è mai colpevole?».
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