venerdì 14 agosto 2015
REPORTAGE/2 In Puglia, nel ghetto di Rignano, ogni giorno è una guerra tra poveri. Con stranieri che vengono sfruttati dai loro stessi connazionali. «Non abbiamo altra scelta. Qui è tutta mafia». (Matteo Fraschini Koffi)  Leggi la PRIMA PUNTATA
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Il sole sta tramontando sui campi di pomodori e una luna piena e rossa spunta da dietro le montagne del Gargano. Anche questa giornata sta per finire. Manca sempre meno alla fine della stagione dell’oro rosso. E, come ogni sera, decine di furgoni con dentro centinaia di braccianti iniziano a tornare al ghetto. Appena scesi dai mezzi, inizia la trafila dei pagamenti che a volte può durare mezz’ora. Solo dopo aver recuperato il compenso giornaliero, ci si fa la doccia e si va a mangiare. Pian piano i ristoranti si riempiono e le discussioni si fanno sempre più accese.«L’Italia è mafia». Il giudizio di Youssouf è secco e conciso. «Ci dicono che dobbiamo scendere in piazza e lottare per i nostri diritti di braccianti, ma a me sembra tutto inutile. Se gli italiani non sconfiggeranno prima la mafia – continua il giovane maliano – la nostra situazione rimarrà la stessa per sempre».Youssouf, sbarcato a Lampedusa 4 anni fa in seguito allo scoppio della guerra civile in Libia, sta parlando con alcuni amici davanti al bar di un suo connazionale che vende pollo alla brace nel "ghetto" di Rignano. Lo interrompo per avere una sua opinione sulle condizioni di migliaia di persone che come lui lavorano nei campi. «Siamo troppo divisi tra di noi – afferma –. Unirci per andare contro la mafia è un’impresa impossibile».Dopo due settimane trascorse nel ghetto, risulta chiara la diffidenza tra le differenti nazionalità. I maliani sono i più numerosi e posseggono un grande numero di furgoni e contatti che usano per lavorare durante l’intera stagione della raccolta. Camerunesi, senegalesi, nigeriani, e altre nazionalità dell’Africa centrale e occidentale, si tengono altrettanto stretti i loro datori di lavoro. Ma tutti si lamentano dei propri connazionali che, avendo il ruolo di traghettatori e capisquadra, trattengono sempre una percentuale dei guadagni giornalieri dei braccianti. «È meglio che gli italiani vengano direttamente al "ghetto" ad arruolarci – commenta un ragazzo del Burkina Faso –, almeno evitiamo di pagare il trasporto fino ai campi. Ammetto che anche tra di noi c’è davvero poca solidarietà».Un trasporto quotidiano di circa 3 o 4 euro, a seconda della distanza da percorrere e del mezzo utilizzato, che incide in maniera micidiale sulle 25 euro giornaliere. Le rivolte scoppiate durante gli ultimi dieci anni contro tale sistema si contano sulla punta delle dita: Rosarno, Castel Volturno, la masseria Boncuri. Ma spesso è necessaria la morte di uno o più braccianti affinché si esca dal silenzio. Altrimenti, si lavora tutti, sempre di più, a testa bassa. Nonostante ciò, il ghetto rappresenta solo il sintomo di una malattia internazionale. «La cosa più importante è uscire dalla dimensione locale per affrontare questa drammatica realtà a livello mondiale», spiega Claudio de Martino, avvocato foggiano e specializzato nel diritto del lavoro.«La raccolta del pomodoro, come di molti altri prodotti, è definita nella mentalità italiana un fenomeno solo della Puglia. Quando invece dovrebbe essere considerato una questione che riguarda non solo l’Italia e l’Europa – continua de Martino », ma i diritti e la dignità di ciascun lavoratore all’interno del mercato globale». Secondo un recente studio redatto da de Martino e altri suoi colleghi, il fenomeno di caporalato e sfruttamento del lavoro a basso costo degli stranieri sembra addirittura essere favorito dalle norme italiane dell’immigrazione.«La legge 189 del 2002 impone la stipula di un contratto di soggiorno tra migrante e datore – precisa la relazione –. A causa dell’elevato numero di migranti clandestini o irregolari si è formata una massa di lavoratori disponibili ad offrire le loro prestazioni per un basso salario, senza possibilità di regolarizzazione». Una fetta importante dei circa 27mila produttori agricoli della Puglia sfrutta quindi tali condizioni per risparmiare sulla forza lavoro e sopperire alle aste al ribasso dei loro prodotti. «Non è possibile che un pomodoro venga pagato dalle grandi società di distribuzione e trasformazione 19 centesimi al chilo – si lamenta un agricoltore –, quando si sa che ci vorrebbero almeno 40 centesimi per coprire i costi di forza lavoro, concime, pesticidi». Colti dalla disperazione, un numero sempre maggiore di contadini si è paradossalmente visto costretto a guadagnare sulla distruzione dei propri raccolti: costava di meno far marcire la verdura rispetto a ingaggiare la manodopera locale o straniera. Le gravi condizioni in cui versano le aziende agroalimentari non devono però giustificare le violazioni dei diritti umani.«Comprendiamo la complessità delle dinamiche di una filiera come quella del pomodoro – afferma Giuseppe Deleonardis, segretario generale della Flai-Cgil in Puglia –, ma proprio per questo stiamo spingendo da anni per una certificazione etica dei prodotti agricoli in cui è necessario far chiarezza sulla tracciabilità del sistema». Sono diversi i casi in cui grandi aziende della trasformazione e distribuzione hanno ignorato o accettato solo in apparenza l’adozione di un codice etico da parte della filiera.Sulle ceneri del progetto Ghetto-Off, mai veramente decollato, la sfida attuale è quella di coinvolgere le istituzioni e permettere una maggiore unione tra le migliaia di agricoltori locali. «Da circa 8 anni le autorità non vengono più coinvolte dagli agricoltori – continua Deleonardis –, da una parte non c’è la volontà di farlo, dall’altra non si è in grado». Le multinazionali della distribuzione, difficili da intervistare, dicono invece di rispondere semplicemente alla domanda del mercato. «Una possibile soluzione sarebbe quella di rendere orizzontale questa filiera verticale», spiega Antonio Fortarezza, documentarista di origine foggiana e organizzatore del convegno "La filiera (non) etica: dai campi agli ipermercati" previsto per il 4 settembre a Foggia. «E tali problemi potrebbero risolversi se una singola società si occupasse di distribuzione, trasformazione, trasporto, agricoltori e braccianti. Con il sistema attuale, invece – continua Fortarezza –, la responsabilità viene trasferita dal basso verso l’alto rispettando solo le regole del profitto». Secondo altri esperti, è necessario anche un atteggiamento del cittadino molto più critico rispetto a quello che si compra. Il cambiamento può partire dal basso, sebbene la realtà locale sia particolarmente avversa ad affrontare pubblicamente certe problematiche. In una regione dove da generazioni diverse mafie italiane e straniere si contendono il territorio e l’economia del Paese, risulta tutt’altro che facile riuscire a parlare con la gente del posto. Troppo spesso sia gli adulti che i giovani celano infatti le proprie opinioni dietro un muro di omertà difficile da penetrare.
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