giovedì 15 gennaio 2015
​Dal 2011 Bruxelles finanzia il progetto Ran: interventi in scuole e famiglie per frenare l'odio.
A Roma si indaga sui viaggi dei jihadisti «italiani»
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​«Lupi solitari», «attentatori della porta accanto», «terrorismo molecolare». Sono le definizioni usate dagli "007" per classificare individui capaci di trasformare in silenzio, lontano dal faro delle indagini di polizia, le proprie convinzioni estreme in atti violenti. Vicende come quelle dei francesi Said e Cherif Kouachi o Amedy Coulibaly hanno radici diverse da quella dell’immigrato libico Mohamed Game (che nel 2009 fece esplodere un ordigno fatto in casa davanti a una caserma di Milano) ma anche tratti comuni. Studiarli, con progetti sul campo (nelle periferie, nei centri per immigrati, nelle prigioni) potrebbe aiutare a prevenire altri episodi. È il cosiddetto soft power, l’approccio "morbido" poco studiato alle nostre latitudini, al punto che, lamentano gli esperti, «ancora non c’è alcuna traduzione in italiano delle ricerche estere». E mentre la Commissione Ue ha quintuplicato i finanziamenti della rete europea di interventi (da 5 a 25 milioni di euro), chiamata Ran, l’Italia non ha ancora varato proprie azioni.Verso l’orrore a piccoli passi. Fra le palestre dell’odio, ci sono i siti web radicali, ma anche i cattivi maestri in cerca di potenziali reclute. La prima tappa, scrivono nel rapporto «La metamorfosi operata nei giovani dai nuovi discorsi terroristici» gli studiosi francesi Dounia Bouzar, Christophe Caupenne e Sulayman Valsan, consiste «in un piccolo passo: urlare contro i poliziotti, esibire apertamente la propria ideologia, cambiare i costumi sociali... È un cambiamento che avviene a domicilio, in famiglia...». A quel punto, «è ancora tutto virtuale e i cadaveri e le teste esibite dai combattenti somigliano a scenografie lontane... Poi viene la disumanizzazione. Senza la negazione dell’umanità della vittima, nessun crimine sarebbe davvero possibile». I tre studiosi collaborano in Francia col Cpdsi (Centro di prevenzione contro le derive settarie collegate all’Islam). E anche in Gran Bretagna o Germania lo studio dei percorsi di radicalizzazione è una pratica diffusa.Rete europea, Italia ferma. Tre anni fa, l’allora commissario europeo agli Affari interni Cecilia Malmström ha costituito la Ran, una «rete di sensibilizzazione al problema della radicalizzazione», per «contrastare l’ideologia e la propaganda degli estremisti». La rete è articolata in nove gruppi di lavoro: da quello fra investigatori a quello sulla prevenzione, fino al team che si occupa della «deradicalizzazione» di ex estremisti. Fra i due leader del gruppo sulle «voci delle vittime di terrorismo», insieme a un francese, c’è proprio un ricercatore italiano, Luca Guglielminetti: «Sono tre anni che me ne occupo, senza che alcuna autorità italiana, del ministero dell’Interno o altro, abbia mai dato segnali di vero interesse al lavoro svolto, neppure durante il recente semestre di presidenza. In Italia e in altri Paesi latini, la prevenzione è ancora intesa come repressione delle fasi iniziali di un attentato» osserva amaramente, mentre «nel Nord e centro Europa la prevenzione del terrorismo non è affare esclusivo di polizia e intelligence. Dalla partnership fra pubblico e privato sono nati progetti sul campo con interventi in comunità a rischio, scuole, famiglie». Con risultati concreti: dal 1998 in Germania l’associazione Exit, guidata dall’ex estremista di destra 34enne Robert Örell ha sottratto alla violenza 700 giovani.Il nodo delle carceri. Il premier francese Manuel Valls annuncia la predisposizione di reparti d’isolamento per i detenuti radicali. E in Italia? Chi ha memoria ricorderà la conversione in carcere del siciliano Domenico Quaranta, che fra il 2001 e il 2002 fece esplodere bombole di gas nella valle dei templi di Agrigento e nella metro di Milano. Da allora poco si è fatto: «In carcere c’è il rischio di diffusione del fondamentalismo islamico», avverte Donato Capece, segretario del sindacato di polizia penitenziaria. E Guglieminetti conferma: «Nei penitenziari italiani non ci sono interventi anti-radicalizzazione. Non mancano le buone prassi, ma sono casi isolati. Andrebbero coordinati e messi in rete. Attendiamo che sopraggiungano consapevolezza e volontà politica, sperando che non avvenga solo dopo qualche attentato».
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