giovedì 30 aprile 2015
Inchiesta sul riassetto: ecco perché è fermo il piano di Poste Italiane. (Paolo Viana)
INTERVISTA Il sindacalista: «La rivoluzione non è vendere i titoli agli anziani» | LA STORIA Tra carrugi e paesini già si sentono penalizzati
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Il vero piano strategico delle nuove Poste Italiane è la parziale privatizzazione attesa per fine anno, il collocamento sul mercato del 40% delle azioni di questa Spa di Stato. Quella, diciamolo subito, è la stella fissa di ogni pianificazione del Gruppo, il motore immobile che fa girare tutto quanto, dall’acquisizione (contestatissima) di Anima holding ai turni dei portalettere. Già, perché a nessun investitore piacerebbe mettere soldi in un’azienda in perdita, per quanto blasonata e fornitrice esclusiva di un servizio pubblico. Così, mese dopo mese, al vertice del management aziendale si è fatta strada la tentazione di dismettere le attività meno profittevoli – a partire dal recapito di corrispondenza e giornali – per spostare le risorse dove i concorrenti macinano utili. Una svolta che dovrebbe compiersi in cinque anni, secondo il piano strategico presentato a fine anno dall’amministratore delegato Francesco Caio e subito stoppato dalle critiche. Il super-piano postula, infatti, l’impossibilità di continuare a offrire agli italiani il servizio postale tradizionale e, lasciando intravedere un abbandono dei territori e del servizio universale finora presidiati dalle Poste, crea apprensione non solo nei cittadini, ma anche nelle istituzioni e induce a ulteriori riflessioni nello stesso Cda.Del resto, Mr.Agenda digitale (definizione di Enrico Letta) non fa mistero di credere molto nell’e-substitution (il "naturale" passaggio a forme elettroniche di comunicazione) e pochissimo nella carta e nell’inchiostro. Considera irreversibile il calo dei volumi della classica posta indirizzata, passata da 4 miliardi di pezzi a 2,6 tra il 2010 e il 2014, mentre vuole crescere nella logistica dei pacchi, dove ambisce a passare dal 10 al 30% della quota di mercato e nei pagamenti digitali (da 20 a 30 milioni di carte di pagamento) e nella vendita di prodotti finanziari (da 430 a 500 miliardi di risparmio investito) che promettono ben altri ricavi. A suo dire, consentiranno al gruppo di salire da 22 a 30 miliardi entro il 2020. Un piano aggressivo, forse perfetto per una società per azioni privata, ma non per un’istituzione che, storicamente, è stata e deve continuare a essere una delle espressioni concrete della socialità e della stessa unità nazionale. Parte proprio da questo vulnus la reazione del sindacato, che rinfaccia a Caio il crollo degli utili e della qualità rispetto alla gestione Sarmi, ma soprattutto preme sul governo perché lo convinca a cambiare rotta. Eventualità esplicitamente esclusa dal manager nell’audizione alla Commissione trasporti della Camera. Il piano strategico promette investimenti in tecnologie (3 miliardi), formazione (30 milioni di ore) e soprattutto personale, con 8.000 assunzioni in cinque anni. Un toccasana anche per il servizio postale, se non che quest’iniezione potrebbe rivelarsi insufficiente, se è vero che comprenderà, come sospettano i sindacati, anche i contratti part time e a tempo determinato da regolarizzare. Quel che non convince è innanzi tutto il timing delle misure: mentre le nuove assunzioni scatteranno "entro" il 2020, gli esodi incentivati sono già iniziati al ritmo di 4.800 dipendenti all’anno, quindi 24mila sugli attuali 143mila (-16,8%). È già stato proclamato, per questo, lo sciopero degli straordinari. Nel piano Caio, lo snellimento degli organici procede in parallelo con la chiusura degli uffici postali: motivandola con la riduzione dei ricavi e dei finanziamenti pubblici destinati al servizio universale (presidio del territorio e recapito della corrispondenza), finanziato dallo Stato attraverso un contributo che la legge di Stabilità ha ridotto a 262 milioni di euro (nel 2005 erano 701), è stata decisa la chiusura per 455 uffici e la razionalizzazione per 609. Oggi sono circa 13mila. La capillarità del servizio, informa la società, è superiore a quella di altri Stati europei, ma la dieta annunciata rischia di intaccare la missione storica delle Poste e lo stesso brand. Non bisogna dimenticare infatti che tutte le sue attività, compreso quel collocamento dei prodotti finanziari che rappresenta il nuovo core business, il cuore delle attività dell’azienda, beneficiano di un’autorevolezza che è stata accumulata in secoli di servizio pubblico universale; infatti, non vi è discorso pubblico in cui lo stesso Caio non ricordi l’importanza di questo "patrimonio", che però rischia di essere sacrificato sull’altare dei nuovi affari. È precisamente ciò che rimproverano alla società i Comuni che saranno interessati dalla consegna a giorni alterni della corrispondenza, la novità più controversa. Convinto di essere al tramonto della corrispondenza ordinaria, tant’è vero che la spesa media mensile delle famiglie italiane in servizi postali è scesa in cinque anni da 4,26 a 2,05 euro, Caio candida le nuove Poste "private" a essere «l’architetto di un’Italia più digitale, più semplice e più competitiva». Il prezzo sociale per alfabetizzare gli italiani all’uso dell’informatica e abbattere per sempre il digital divide (lo scarto di competenze e possibilità digitali oggi esistente) è tuttavia molto alto: la maggioranza degli esodi incentivati riguarderà i portalettere, in quanto il servizio di recapito è in perdita e perché il piano strategico prevede di dimezzare questo servizio nei confronti del 25% della popolazione – 15,4 milioni di abitanti, tra cui il 19,6% dei piemontesi, oltre il 45% dei valdostani e il 29,4% dei lombardi… – attraverso la distribuzione della posta ordinaria a giorni alterni. Se abitate in una delle comunità interessate dall’operazione, una settimana il postino busserà alla vostra porta il lunedì, mercoledì e venerdì e quella successiva il martedì e il giovedì. In tal caso, scordatevi i quotidiani e le cartoline. Vi raggiungeranno con (relativa) puntualità la posta prioritaria e le raccomandate, che però costeranno di più. Agcom ha dato un primo via libera alla proposta, pur riducendo il numero dei Comuni coinvolti e limando le tariffe postali proposte da Caio, ma ha anche aperto una consultazione pubblica, che è in pieno svolgimento. Non è andata altrettanto bene con Bruxelles, che ha "bocciato" il piano quinquennale, chiedendo il rispetto della direttiva che obbliga chi gestisce il servizio universale a recapitare la posta per un minimo di cinque giorni lavorativi a settimana, anche nelle zone scarsamente popolate. Giova ricordare, come ha fatto l’Europa, che il servizio universale non è un servizio di mercato, è stato precisato, bensì un obbligo «necessario a garantire il diritto alla comunicazione tra cittadini e assicurare la coesione sociale e territoriale in tutti i Paesi dell’Unione». Tant’è vero che le deroghe accordate sono pochissime. Una alla Grecia, dove i postini devono servire migliaia di isole, ma in quel caso la consegna a giorni alterni riguarda il 6,8% della popolazione.
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