giovedì 3 novembre 2011
​Cinque test clinici in corso con farmaci utilizzati per il trattamento dell’Alzheimer. Obiettivo: migliorare le funzioni cerebrali, e con esse la vita di bambini e adulti Down. I ricercatori americani ne sono sicuri: la cura è vicina. Ma è lotta contro il tempo: esami prenatali precoci permettono di individuare i feti affetti dalla sindrome, con ricorso massiccio all’aborto «terapeutico».
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​William Mobley, presidente del dipartimento di scienze neurologiche dell’Università della California a San Diego, ha un sogno. Un dottore riceve una coppia che ha appena ricevuto la diagnosi prenatale di sindrome di Down per il figlio che aspetta. «So che siete confusi e preoccupati – dice loro il medico – ma la scienza ha fatto progressi enormi negli ultimi anni. Vi assicuro che vostro figlio nascerà bene, non avrà malattie cardiache, lascerà l’ospedale velocemente, crescerà, andrà a scuola con gli altri bambini, andrà all’università, troverà lavoro, guiderà una macchina e si sposerà. E non si dovrà mai preoccupare di avere il morbo di Alzheimer. Penso che dobbiate saperlo prima di prendere una decisione».Mobley e le decine di altri scienziati americani alla ricerca di medicinali che migliorino la vita di bambini e adulti Down sono convinti che non sia fantascienza. Perché la ricerca negli Stati Uniti non è mai stata così  vicina a produrre una terapia che aiuti le 350 mila persone affette dalla sindrome nel Paese a vivere più a lungo e con meno problemi di salute. Ma i ricercatori devono muoversi alla svelta. La loro sfida è produrre risultati prima che la sindrome di Down scompaia per sempre dai Paesi sviluppati.In un laboratorio di San Diego, non lontano da quelli dell’équipe di Mobley, infatti, altri scienziati studiano da tempo e con altrettante intensità la trisomia 21. Nel loro caso non con lo scopo di curarla, bensì di diagnosticarla. Per circa 1900 dollari intendono offrire ai futuri genitori la certezza che il nascituro sarà o non sarà "normale". Il loro lavoro è già sfociato in un test che sarà in commercio negli Stati Uniti da lunedì prossimo e permette di identificare la sindrome di Down durante il primo trimestre di gravidanza. Stando alla società che lo ha sviluppato, la Sequenom, l’esame del sangue è corretto nel 98,6 per cento dei casi, e senza i rischi connessi a pratiche invasive come l’amniocentesi o la villocentesi. Se questi numeri saranno confermati (la stessa società nel 2009 era stata travolta da uno scandalo dopo aver falsificato i risultati di un simile studio) si tratterebbe di un metodo più accurato e precoce di quelli offerti finora e che, la storia dei test prenatali insegna, porterebbe a un drastico aumento degli aborti di feti Down. Il tasso di interruzioni di gravidanza per motivi cosiddetti "terapeutici" (dopo l’identificazione di abnormalità nel feto) si impenna infatti all’indomani dell’introduzione di ogni nuovo strumento diagnostico. Questa volta la decimazione della popolazione Down coinciderebbe con la concreta possibilità di una vita indipendente e dignitosa per chi è affetto dalla sindrome.L’annuncio della commercializzazione del test della Sequenom ha già compromesso la ricerca di Mobley e dei suoi colleghi. Da quando i nuovi esami prenatali hanno raggiunto la fase finale di sviluppo, i finanziamenti per i loro studi si sono quasi prosciugati. I contributi arrivati dall’Istituto nazionale per la salute – un’agenzia governativa americana – sono crollati a 16 milioni di dollari. La ricerca per la fibrosi cistica, che colpisce meno di un decimo della popolazione Down, ha ricevuto 68 milioni.Ma la squadra dell’Università di San Diego non si è arresa. Per raccogliere fondi ha cominciato a presentare alle agenzie governative e alle società farmaceutiche la sua ricerca come complementare a quella sul morbo di Alzheimer – una malattia che le persone Down spesso manifestano nel corso della loro vita. «Siamo così vicini – spiega Mobley. – Ora sappiamo come funziona il cervello di una persona Down. Sappiamo quale gene e quali recettori sono responsabili dell’inibizione dei contatti all’interno dell’ippocampo, che rendono la funzione cerebrale poco attiva, e sappiamo che possiamo cambiare queste funzioni. Non è nemmeno necessario ricorrere a terapie genetiche. Abbiamo bisogno solo di molecole, di enzimi assumibili per bocca». Molti già esistono.Attualmente negli Stati Uniti ci sono cinque test clinici in corso, tesi a valutare la capacità di medicinali in commercio di migliorare le funzioni intellettive delle persone Down. Il più avanzato, condotto da Alberto Costa in Colorado (si veda intervista in questa pagina), ha raggiunto la fase quattro, che analizza l’efficacia sulle persone, dopo aver dato risultati positivi sulle cavie da laboratorio.Il test più recente è stato invece annunciato dalla Roche nelle ultime settimane. Il gigante svizzero ha reclutato 33 partecipanti per indagare sulla possibilità che una medicina usata per l’Alzheimer, la RG1662, riduca i difetti cognitivi associati alla trisomia 21. L’interesse di una delle più grandi società farmaceutiche del mondo ha dato speranza ai ricercatori, che sono a disagio di fronte alla mancanza di un dibattito sulle implicazioni dei nuovi test prenatali. «È importante comunicare che ci sono molti tipi di disordini genetici identificabili in utero e che una diagnosi di Down non è una condanna – spiega Craig Garner, dell’Ùniversità di Stanford – molti bambini Down prosperano, e così le loro famiglie». Nel mondo della genetica, come all’interno delle associazioni delle famiglie di persone Down, cresce infatti il timore che a offrire i nuovi esami sarà personale non al corrente dei passi avanti della ricerca. E i genitori riceveranno solo una serie di informazioni allarmanti. «Potremmo trovarci – conclude Garner – di fronte all’ultima generazione di bambini Down negli Usa».
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