lunedì 23 febbraio 2015
Calano le contestazioni locali contro le infrastrutture. «Superare i veti con nuove modalità di partecipazione». (Chiara Merico)
I No Tav: crisi? Il movimento è vivo e vegeto
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Il fenomeno è ancora diffuso capillarmente in tutta Italia, ma la novità più recente è che l’ondata di proteste si sta attenuando. Dalla Sicilia del Muos, il sistema di comunicazione satellitare del dipartimento della Difesa statunitense che dovrebbe sorgere a Niscemi, in provincia di Caltanissetta, bloccato la scorsa settimana da una sentenza del Tar di Palermo, al Piemonte della Val Susa che da anni si oppone alla realizzazione della linea ferroviaria ad alta velocità Torino-Lione: lungo tutta la penisola sono fioriti negli ultimi anni i cosiddetti "movimenti del No", che si oppongono alla realizzazione di opere infrastrutturali invise alla popolazione locale. Si tratta di una galassia molto articolata, di cui fanno parte, tra gli altri, i veneti del No Mose, contrari alla realizzazione del sistema di paratie mobili nella laguna di Venezia, i No Triv presenti in Basilicata, Campania, Emilia e Abruzzo, e i No Tap, che protestano contro l’approdo del nuovo gasdotto sulle coste salentine.Ma nel 2013, secondo gli ultimi dati disponibili, i casi accertati di proteste Nimby (Not in my backyard, non nel mio cortile) sono stati 336, in calo del 5% rispetto all’anno precedente. A tracciare una mappa del dissenso è l’Osservatorio Nimby Forum, che dal 2004 monitora la situazione delle opere contestate e ogni anno emette un rapporto: la nona edizione, presentata a luglio 2014, è stata realizzata con il contributo di aziende come A2A, Edison, Enel, Falck Renewables, TAP e Terna. Nel 2013 sono calati anche i nuovi casi: 108 contro i 152 registrati nel 2012. «La lettura non per forza è positiva – commenta Alessandro Beulcke, presidente di Aris, l’associazione che promuove l’osservatorio Nimby Forum –. Il Paese è infatti attraversato da una crisi non solo economica ma anche reputazionale, che allontana gli investitori esteri. In Italia si contesta di meno perché diminuisce il numero dei progetti per la realizzazione di infrastrutture di valenza strategica per l’economia  nazionale e locale: tra le cause c’è appunto la riduzione degli investimenti».Un dato confermato dal Censis, secondo cui dal 2007 gli investimenti diretti in Italia sono calati del 58%, a 12,4 miliardi di euro, a causa di fattori come la burocrazia, i tempi e i costi da sostenere per avviare un progetto. Proprio su questo scommette il decreto Sblocca Italia, varato dal governo Renzi e convertito in legge lo scorso novembre: tra gli obiettivi dell’esecutivo c’è la semplificazione delle procedure per consentire l’avvio di nuove opere ritenute "strategiche" e il completamento dei progetti esistenti e rimasti in sospeso. Grande attenzione viene data alla "valorizzazione delle risorse energetiche nazionali", in particolare alle opere che riguardano gli approvvigionamenti di petrolio e gas: una parte duramente contestata, ad esempio, dagli ambientalisti e dal movimento No Triv.Quale che sia la ragione, bloccare le opere ha un prezzo: almeno secondo i dati dell’Osservatorio Cnf ("I costi del non fare") della società di consulenza Agici, che valuta gli impatti economici, ambientali e sociali dei ritardi nella realizzazione di opere prioritarie. Secondo l’ultimo rapporto, tra il 2014-2030 il "non fare" potrebbe costare 800 miliardi di euro. «A risentire maggiormente delle proteste sono le infrastrutture di rete, che coprono territori più estesi, come strade e ferrovie», spiega Stefano Clerici, condirettore dell’Osservatorio. Tuttavia, «anche se il blocco sociale è il problema più evidente dal punto di vista mediatico, i problemi maggiori sono a livello burocratico e normativo. L’errore spesso è a monte: queste scelte non vengono sempre condivise con la popolazione, come invece avviene in Francia con lo strumento del dibattito pubblico. Il problema dell’opposizione sociale si supera con una maggiore partecipazione: la condivisione porta vantaggi anche sul fronte degli investimenti».Le proteste in Italia riguardano in particolare il comparto elettrico (63,4% del totale delle opere contestate nel 2013, contro l’11,6% del 2004), mentre diminuiscono nel comparto dei rifiuti (25,3% contro il 78,8% del 2004). Ma il dato forse più significativo riguarda l’opposizione agli impianti per l’utilizzo di fonti rinnovabili, che si scontrano con il "no" della popolazione nell’87,4% dei casi: spesso i cittadini si dicono favorevoli  a parole all’utilizzo di tecnologie green, salvo poi reagire quando il fenomeno li tocca da vicino. Un esempio, racconta Beulcke, «è quello del Trentino, regione in cui è stata proposta di recente la costruzione di un impianto che trasforma rifiuti speciali non pericolosi in syngas, un gas sintetico che alimenta impianti per la produzione di energia elettrica. All’assemblea di presentazione del progetto alcuni cittadini sono insorti al grido di "non lo vogliamo"». Per Beulcke «spesso le proteste della popolazione vengono sollecitate dai politici locali, che le cavalcano per ragioni elettorali. Ma a volte dimenticano che non siamo nel Paese del "tutto è possibile": le leggi ambientali ci sono e sono molto stringenti». I movimenti del No, ragiona il presidente dell’osservatorio Aris, «non sono tutti uguali: al loro interno coesistono anime diverse. Ad esempio, nell’ambito dei  No Tav il movimento dei sindaci ha avuto un atteggiamento collaborativo: con la costituzione dell’Osservatorio della Valsusa e i numerosi incontri si è arrivati a ottenere una modifica del percorso dell’opera. Questo è un esempio di opposizione intelligente, mentre altri generi di protesta, come quella cavalcata dai centri sociali, hanno spesso una base ideologica».
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