lunedì 1 settembre 2014
​Per riflettere su futuro dei piccoli affetti dalla sindrome di Pitt Hopkins il 20 settembre al Gemelli verrà presentata la prima associazione italiana.
L'esperta: "non esiste una cura"
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​«Era diverso dal mio primo figlio, me ne sono accorta subito, ciucciava in maniera strana, ma mi dicevano di non preoccuparmi, che in fondo ogni bambino si attacca con i suoi tempi», invece è l’istinto di mamma Tiziana a rendersi conto che in Davide, appena nato, c’era qualcosa che non andava. Ma sono dovuti passare molti mesi e analisi e supposizioni prima di arrivare alla diagnosi: sindrome di Pitt Hopkins, una malattia genetica molto rara che conta pochissimi casi riconosciuti nel mondo, circa 200. «Verso i quattro mesi – prosegue Tiziana – la pediatra ci dice: vediamo come va, poi a settembre facciamo un consulto neurologico. Da quel momento si sono susseguiti una serie di problemi respiratori che hanno portato Davide al ricovero in bronco-pneumatologia all’Ospedale Bambino Gesù di Roma».Secondo i medici i problemi respiratori giustificavano il muoversi poco del bambino, ma alla mamma non sembrava una spiegazione sufficiente. «È stata determinante la tenacia con cui mia moglie ha richiesto una visita neurologica – racconta Gianluca, il papà di Davide –; da questa è stato possibile procedere con una risonanza magnetica e con tutti gli altri esami del caso, che hanno permesso di identificare precocemente un ritardo psicomotorio». I ricoveri continuavano a susseguirsi e, durante questo lasso di tempo, capitava che Davide perdesse conoscenza senza una ragione apparente. Aveva 13 mesi. «Per un caso ha avuto uno di questi episodi durante un esame specifico – ricorda la madre – e questo ha permesso di accertare che succedeva perché andava in iperventilazione. Sulla base di questo sintomo, un medico ha avuto l’intuizione di indagare la presenza della Sindrome di Pitt Hopkins».Nel buio di questo primo periodo, nelle crisi e nella mancanza di risposte, dove reperire le informazioni? Come cercare notizie? Vengono in mente consultazioni febbrili sui motori di ricerca e notti insonni. «Quello che ci ha angosciato – rivela papà Gianluca – è il cercare di capire se stavamo facendo abbastanza per nostro figlio. È una domanda lacerante per un genitore: sapere se Davide era seguito nel modo migliore possibile, se c’era qualcosa d’altro da provare. Una domanda che per i primi tempi è stata incalzante, in una ricerca affannosa per ricevere la piccola consolazione di sapere che no, di più non si può fare».Ma i due genitori hanno sempre sentito di avere il sostegno dei sanitari: «Ci siamo sentiti confortati dall’attenzione e dalla cura dei medici, abbiamo potuto contare da subito su un’équipe che si muoveva per cercare di mettere insieme i pezzi del puzzle e capire dove fosse il problema. A partire dalla dottoressa Reali, la pediatra che non conosce sabati, domeniche e festivi per seguire Davide, ai primari dei reparti, ai vari specialisti, hanno speso la loro professionalità e conoscenza per indirizzarci alla fine verso il reparto di malattie rare e alla professoressa Zollino del Policlinico Gemelli di Roma». Molta meno comprensione è arrivata invece dall’implacabile apparato statale, che ha fatto del riconoscimento della disabilità di Davide una via crucis di poca umanità che ha molto ferito i suoi genitori: «Abbiamo trovato un muro. Fa male portare tuo figlio alla visita di una commissione che, senza degnarlo di uno sguardo e nonostante i faldoni di documentazione che avevamo con noi, metteva in dubbio la stessa degenza in ospedale e la sussistenza di una patologia invalidante». Inoltre, per uno di quei cavilli che solo la più ottusa burocrazia sa produrre, un nuovo problema nasce da un banalissimo e non sostituibile codice da inserire nel sistema: «Siccome la sindrome di cui soffre Davide è molto rara, paradossalmente non esiste un codice di esenzione riconosciuto e specifico in cui inserirlo che così manca e non può essere applicato».È difficile trovare le parole giuste per descrivere la forza, la dignità e la grande speranza che anima e sostiene Tiziana Russo e Gianluca Vizza, avvocato e ingegnere ma soprattutto genitori. Sono passati attraverso innumerevoli peripezie, le più spiacevoli quelle burocratiche, eppure non si sono mai persi d’animo: «Abbiamo reagito così grazie agli amici, ai familiari, ai colleghi, ai collaboratori. Tutti ci sostengono, aiutano, confortano, pregano. Abbiamo ricevuto una cartolina dalla Terra Santa per farci sapere che anche lì si prega per Davide». Non tutti i genitori però hanno la forza, la capacità, gli strumenti per affrontare da soli tutto questo.Pensare al futuro di questi bambini è il primo pensiero, così, per sensibilizzare sul problema, aiutare la ricerca, diffondere il maggior numero di informazioni possibili e mettere in rete le famiglie, il 20 settembre, alle 11, nell’Aula Brasca del Policlinico Agostino Gemelli, verrà presentata l’Associazione italiana Sindrome di Pitt Hopkins (www.aisph.it) , la prima in Italia rivolta a questa particolare sindrome genetica. Un’associazione che dia voce ai piccoli malati e ai loro familiari. Oggi Davide ha due anni e mezzo, è un bel bambino, vivace e sorridente, che va al nido tra medicine e maestre volenterose, che ha imparato a tenere il cucchiaio da solo e gioca con il fratellino Francesco di quattro anni, che lo protegge («lo devo stimolare!») e si arrabbia con lui come tutti i fratelli. Ma Davide non è guarito, perché dalla sua sindrome non si guarisce. Eppure, non per questo, si rinuncia a vivere.
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