giovedì 6 agosto 2015
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L'ennesima tragedia al largo della Libia getta una luce sinistra sull’incapacità dell’Europa di reagire in modo coordinato e coerente di fronte a un fenomeno epocale. Troppe volte i leader dei Ventotto con lacrime di coccodrillo hanno giurato «mai più» di fronte a un nuovo dramma – da ultimo al vertice straordinario di aprile, che vide i leader partecipare a un minuto di silenzio per le vittime. Questione di giorni, e già le proposte della Commissione Europea per un’Agenda europea della Migrazione sono state vergognosamente annacquate dagli interessi di politica interna nazionale (soprattutto di alcuni Paesi).Lo si è visto con la triste sceneggiata intorno alla proposta della Commissione di quote obbligatorie per un meccanismo di ripartizione dei richiedenti asilo con maggiori prospettive di accoglienza (eritrei, siriani, iracheni), svilito a un’offerta "volontaria" del tutto irrisoria per alcuni Paesi (soprattutto quelli dell’Est che contano meno presenze di rifugiati, Ungheria a parte). E così non si è riusciti, il 20 luglio scorso, a centrare l’obiettivo – solennemente sancito dai leader a giugno – di spostare 40mila richiedenti asilo da Italia e Grecia (ci si è fermati a 32mila).Del resto la questione va oltre, «l’incidente mortale di oggi (ieri, ndr – ha dichiarato ieri Amnesty International - sottolinea come i governi europei debbano attuare immediatamente rotte sicure e legali per chi ha bisogno di protezione, per ridurre il numero di quanti si imbarcano in pericolosi viaggi in mare». E invece l’Ue, oltre a litigare sulla ripartizione di profughi già in Europa, ha offerto appena 21mila posti per profughi fuori dall’Europa – mentre Turchia, Giordania, Libano ne ospitano 4 milioni. Non decolla neppure l’altro aspetto delle proposte dell’esecutivo Ue, la missione militare (l’Eunavfor Med, con sede a Roma e sotto il comando dell’ammiraglio Enrico Credendino) per fermare i trafficanti di uomini, caldeggiata dall’Alto rappresentante Ue Federica Mogherini, e ufficialmente varata il 19 giugno. Già a maggio abbiamo assistito ai primi annacquamenti – la parola «eliminazione» riferita ai barconi degli scafisti è stata soppressa. E quello che è stato varato è un piano operativo fermo alla «fase 1», e cioè la mera raccolta di informazioni: coinvolti sono i servizi di intelligence, agenzie Ue, navi, sottomarini, droni, aerei, satelliti. Vari Paesi, a cominciare dalla Germania (preoccupatissima di trovarsi in un’operazione bellica suo malgrado) hanno detto no a un avvio almeno parziale della «fase 2», il sequestro delle imbarcazioni degli scafisti in mare. La scusa ufficiale è la mancanza di una risoluzione Onu (bloccata soprattutto da Mosca), che è in realtà indispensabile solo per operare direttamente in acque libiche. L’unica cosa che più o meno funziona sono i salvataggi in mare (salvo quando il barcone, come ieri, si ribalta prima che si possa intervenire). Questo grazie sia all’operazione Ue Triton – fortemente ampliata come risorse e raggio di azione, unica nota positiva – sia alla presenza di varie navi militari (due tedesche, una britannica, in entrambi i casi sotto bandiera nazionale, oltre alla Marina italiana e altri paesi tra cui Francia, Spagna, Irlanda). Clamoroso è stato ad esempio il 6 giugno il salvataggio di 3.500 profughi in mare grazie a un’operazione congiunta di navi tedesche, britanniche, italiane e irlandesi. Una massiccia presenza che almeno un effetto di disturbo per i trafficanti l’ha ottenuto: i flussi si stanno spostando dal Mediterraneo verso la rotta dei Balcani attraverso Turchia e Grecia. Basti dire che secondo Frontex, l’agenzia delle frontiere Ue, tra gennaio e giugno 2015, 79mila migranti sono entrati illegalmente in Grecia dalla Turchia. Il problema non cambia, a Calais, nei Balcani, nel Mediterraneo, alla frontiera di Ventimiglia o sulla rotta Brennero-Germania: la pressione cresce, invano la Commissione Europea, come è accaduto lunedì per bocca di una portavoce, ricorda che quanto sta accadendo «è un ennesimo, drammatico esempio della necessità di solidarietà e responsabilità nel modo in cui affrontiamo le pressioni migratorie in Europa». La "soluzione europea" ancora non si vede.
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