mercoledì 4 giugno 2014
​il direttore del Centro di rianimazione del Policlinico precisa rispetto ad articoli di stampa distorti: mai pazienti "lasciati liberi di morire", ma cure palliative e accompagnamento.
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​Duecento malati di Sclerosi laterale amiotrofica in un anno: tanti ne passano nel Centro Sla del Policlinico Gemelli di Roma, guidato del neurologo Mario Sabatelli, al cui gruppo di ricerca si devono importanti scoperte sui meccanismi di una malattia tuttora irreversibile. «Una malattia che ha un comportamento unico – specifica subito Sabatelli, in un’intervista video sul sito di "Viva la Vita onlus" –, ti permette cioè di mettere in stand by il processo della morte: arriva un momento in cui la tecnologia oggi a disposizione ci permette di dire "ok, la situazione finisce qua" oppure "prolungo la mia vita". Questo fa sì che le scelte di fine vita siano peculiari, cioè riguardano solo questo tipo di malattie, non altri pazienti». Discorso chiaro, eppure Sabatelli mercoledì è stato ripreso, tagliato, reinterpretato e manipolato: «Eutanasia, al Gemelli comportamento ineccepibile», esulta Marco Cappato in un comunicato dell’Associazione Coscioni. «Al Gemelli i malati terminali possono scegliere di morire», titolava Il Fatto, mettendo a corredo dello stesso articolo (online con «eutanasia» nel titolo) la foto di Eluana Englaro (persona in stato vegetativo, non terminale, non malata di Sla).
Torniamo allora all’unica fonte attendibile, Sabatelli stesso. Quando la Sla è progredita al punto da causare gravi crisi respiratorie, «il codice di deontologia medica, le leggi e l’etica parlano chiaro: si discute con il paziente sulla possibilità di mettere in atto terapie straordinarie come la ventilazione artificiale, attraverso una mascherina non invasiva o invece un tubo nella gola, la famosa tracheostomia». Ma per fare questo occorrono tre condizioni: avere il consenso del paziente, informato; l’efficacia del trattamento; l’appropriatezza dello stesso: «Ad esempio, un trapianto di cuore a un cardiopatico è efficace, ma se è 90enne con metastasi ovunque non è appropriato». Il Gemelli ne aggiunge un quarto, la «proporzionalità» tra la gravosità di quel tubo per respirare e i benefici che dà al paziente, e qui la scelta può essere solo del malato: decide lui se sarà in grado di vivere con quello «strumento straordinario» o no. «Io lo informo soltanto, non me la sento di consigliarlo». Quando poi la Sla avanza e le situazioni mutano, «ciò che prima era proporzionato magari non lo è più», e allora al Gemelli come altrove l’alleanza terapeutica con il paziente, seguito e conosciuto da anni, è fondamentale: «Si può dover cambiare il piano terapeutico», ovvero sospendere la tracheostomia. Netto è Sabatelli su eventuali testamenti biologici («non do valore notarile a nessun documento, tutte le scelte vengono via via modificate col paziente»). E se la crisi respiratoria arriva quando è privo di coscienza «il parere del parente è assolutamente nullo, io intervengo», cioè gli salva la vita con il respiratore, «poi, se è lucido, potrà rivalutare la decisione». E qui viene spontaneo il paragone con Riccio, il medico che staccò il respiratore a Piergiorgio Welby dietro sua richiesta, e fu assolto dall’accusa di omicidio del consenziente: «Nessuna legge impedisce di modificare il piano terapeutico – ricorda Sabatelli –, con una malattia che degenera la flessibilità è ovvia» (e qui lo svarione del Fatto è abissale, parlando di Riccio come del «medico di Eluana»).
Del tutto in accordo con Sabatelli è anche Massimo Antonelli, direttore di Terapia intensiva al Gemelli e presidente degli anestesisti e rianimatori italiani (Siaarti): «Il grave fraintendimento – spiega ad Avvenire – è che si scade nel concetto di eutanasia per ciò che è anzi l’opposto. I veri punti fondamentali sono altri: i pazienti non sono mai lasciati soli, e men che meno lasciati morire; profondo rispetto della dignità del malato e della sua sofferenza che cerchiamo di lenire, in alleanza terapeutica; la proporzionalità delle cure». Sulla quale la confusione è tanta: «Desistenza terapeutica non significa abbandono ma stare sempre vicino al malato in tutte le evoluzioni della malattia, l’esatto opposto di certi titoli. Recedere dalla tracheostomia non significa staccare il respiratore ma passare alla maschera, meno efficace ma anche meno invasiva, accompagnando il paziente con un’assistenza continua: vivrà un po’ meno ma in modo dignitoso e con meno sofferenze». Casi che però, «tra centinaia, si contano sulle dita di una mano, perché chi decide per la ventilazione poi la conserva. Focalizzare su rarissimi casi estremi fa perdere di vista ciò che preme a Sabatelli e a tutti noi: non abbandonare, assistere con amorevolezza fino alla fine, rispettare il diritto di avere vicini i propri cari, nel modo e nell’ambiente anche psicologico che tutti vorremmo trovare nel momento della morte».
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