mercoledì 30 novembre 2011
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«Misure strutturali per alleggerire l’emergenza carceri. Gli interventi per tamponare non bastano più. Ci vuole una riforma strutturale del codice penale così da alleggerire il ricorso alla detenzione. Lavoro esterno, affidamento sociale, semilibertà sono misure alternative da rafforzare». Don Virgilio Balducchi dal 1 gennaio entrerà in carica il nuovo ispettore generale dei cappellani delle carceri. Sostituirà monsignor Giorgio Caniato, che ha ricoperto questo incarico per 15 anni. Balducchi, 61 anni, prete dal 1976, da sempre si è occupato di disagio sociale. Prima con i tossicodipendenti, poi con gli immigrati, infine, dal 1990, con i detenuti nel carcere di Bergamo. Un periodo che ha visto i “ristretti” nell’istituto passare da 250 a 580, specchio di una emergenza che interessa tutte le carceri italiane.Vista da fuori la situazione è difficile. Dall’interno?Il sovraffollamento rende sempre più arduo garantire ai detenuti anche i diritti minimi. Dai direttori alle guardie tutti lanciano lo stesso allarme: non ce la facciamo più. La crisi poi ha fatto cadere anche le risorse a disposizione. Tutti assieme cercano di tenere duro. In questi anni però ho visto crescere le attività: la scuola, il lavoro ma a macchia di leopardo. Ci sono situazioni splendide e altre che preoccupano.Servirebbe un’amnistia. O almeno un indulto.Non credo che queste forze politiche siano in grado di prendere una decisione così impegnativa.Rimedi alle viste, allora, non se ne vedono. Cominciamo con una riforma seria del codice penale che tolga la prigione per i reati meno gravi. E poi alternative serie: il lavoro esterno, l’affidamento, la semilibertà. La reclusione va tenuta per le situazioni più ai limiti. Per il resto occorre accompagnare il detenuto perché sappia ricostruire la propria vita. Non solo tenerlo in una cella.Si parla di costruire più carceri.Basterebbe non usarle come luogo dove scaricare il disagio della società. Tossicodipendenti, stranieri, malati mentali: la risposta ai loro problemi non può essere la prigione. Almeno non solo quella.Anche se commettono reati? Qualcuno potrebbe tacciarla di buonismo.Non giustifico nulla: chi sbaglia deve pagare. Ma se non lo aiutiamo a capire il perché e come fare per non ricascarci più, il detenuto che esce ce lo ritroveremo dentro in pochissimo tempo. Costruiamo un percorso che, attraverso il lavoro, lo porti a riconciliarsi con le sue vittime e con la società e allora eviteremo un carcere con le porte girevoli, dove chi esce, rientra in tempi brevissimi. La messa alla prova, per esempio. Non può essere solo uscire: la persona va seguita, accompagnata, spinta a riconoscere dove ha sbagliato perché non ci ricaschi più. Riconciliazione e riparazione del male: sembrano due parole velleitarie ma, in realtà, sono le uniche possibilità per abbattere la recidiva. Quando riusciamo a fare percorsi seri di reinserimento, allora è difficile che le persone tornino a sbagliare. Lei dal 1990 è cappellano del carcere di Bergamo. Che cosa le ha insegnato questa esperienza?Una grande speranza perché Dio fa nascere dei cammini di conversione veri in contesti durissimi. Lo dico per esperienza concreta.Un esempio?Uno de tanti. La madre di un detenuto, uno di quelli classificati “pericolosi” venne a trovarmi per chiedermi di fare vista a suo figlio che era stato preso per l’ennesima volta. Quando mi sono presentato davanti alla sua cella sono stato cacciato con male parole e insulti. Qualche tempo più tardi ero in ufficio e una guardia mi avvisò che quello stesso detenuto voleva incontrarmi. «Stia attento – disse. –. Io resto qui fuori, non si sa mai». L’uomo entrò e si sedette di fronte a me. «Meno male che mi hanno fermato – esordì – perché questa volta ho incontrato Dio». Come inizio non c’è male.Soprattutto perché io non avevo fatto nulla. Dopo quel primo incontro così burrascoso non avevo insistito perché temevo di provocare altre reazioni violente, ma da lì, da quel momento, è partita una conversione profonda di quella persona nei confronti della struttura e degli altri detenuti tanto che, in breve, non è stata più considerata ad alto rischio. Davvero la misericordia e la bontà di del Padre agiscono in maniera inaspettata. E a noi non resta che assecondarle. Come mi ha fatto notare un altro detenuto. «Io posso non credere in me e nel mio cambiamento – mi disse – ma se non ci credi tu, domenica non venire a celebrare Messa».I rapporti con i detenuti di altre religioni non sarà così facile.Innanzitutto bisogna smentire che i detenuti stranieri siano solo musulmani. Vi sono sudamericani cattolici, persone dall’est Europa ortodossi e altri che arrivano dal Nord e sono luterani. Noi aiutiamo tutti, dividendo quello che abbiamo – anche se è poco – senza fare distinzioni.
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