venerdì 26 ottobre 2012
​L'amico Oscar Baffoni racconta il primo incontro con il fondatore della papa Giovanni XXIII: «Don Oreste faceva innamorare di Gesù».
​​​​​​​​​​​​​Testimone di Gesù al cuore di ogni uomo​ di Umberto Folena
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​«Forse è meglio che io ti spieghi chi ero prima...». E per prima intende «prima della notte di capodanno del 1990, quando nella sala d’aspetto della stazione di Rimini poco dopo la mezzanotte ho visto entrare quel cappottone nero, il suo colbacco, le bottiglie di spumante sottobraccio. Non lo avevo mai sentito nominare. Seppi poi che ogni capodanno faceva il giro delle stazioni per brindare con barboni, drogati, i cosiddetti scarti di umanità».E così inizia con un flashback il racconto di Oscar Baffoni – 50 anni, una moglie incontrata in India e due figli di 10 e 12 anni – il responsabile delle missioni in Asia per la Comunità Papa Giovanni XXIII. Ha tutto meno che l’aspetto del missionario, capelli lunghi stretti in una coda e grandi occhi azzurri spesso percorsi da un lampo di ironia, eppure ha fondato missioni in molte regioni dell’Asia («ora stiamo aprendo anche in Nepal, vicino ai gesuiti, perché lì ci sono 18mila cattolici»). E d’altra parte nei suoi primi trent’anni ha fatto tutt’altro, ribelle per natura al punto di non accettare mai regole o limitazioni. «Avevo un’ansia di libertà dentro che mi faceva stare bene, ma per colpa della quale sono arrivato a una vita in cui ho sperimentato tutto, tutte le sostanze stupefacenti io le ho prese, e ho imparato bene a rimediare soldi, tanti soldi. Spendevo decine di milioni tra casinò, donne, feste». Era uno brillante, Oscar, campione di motocross, pittore di grande talento, destinato al successo ogni volta che provava un mestiere. «Arrivavo sempre in cima, poi però mi lanciavo in volo e pensavo di trovare le risposte a tutto, un qualcosa di valido per cui valesse la pena vivere. Ma più andavo avanti e più ero deluso, non è vero che soldi e potere servono a qualcosa. Alla fine più che la disperazione dei miei genitori sono diventato il loro dolore... Rifarei tutto meno questo, far soffrire le persone che ti amano. A quel punto la feci finita».Ma nemmeno la morte si prese Oscar, l’overdose non bastò a porre fine a una vita del genere, anche se sotto la cenere covava sempre quel fuoco generoso imparato da piccolo, «la vocazione che secondo don Oreste io avevo sempre avuto». Qualche giorno dopo, l’incontro casuale con un’amica persa di vista da anni, il cui fidanzato era morto di droga. Lei che gli dà appuntamento in stazione, dove potranno aspettare l’ultimo dell’anno. Ma lì Oscar arriva solo a mezzanotte, lei se n’è già andata, stanca di aspettarlo. «Mi sono seduto e contro il muro ho visto scorrere il film della mia vita, i sogni di bambino, le cose belle e perdute... È lì che è entrato quel cappottone nero col colbacco e le bottiglie. "Mi posso presentare?", mi ha chiesto don Benzi. Siamo rimasti a parlare due ore. Quello che mi ha colpito di lui è stato l’interesse, addirittura l’amore per me che nemmeno conosceva. Mi ha proposto "lascia tutto, insieme dobbiamo fare tante cose". Mi sono licenziato, ho giurato ai miei che questa volta sarei cambiato davvero e mi sono ricoverato per disintossicarmi».Parte così la seconda vita di Oscar Baffoni, missionario in Africa, poi in Bolivia, Cile, Perù, infine in Bangladesh, India, Sri Lanka... sempre trovando da solo i soldi per finanziare autonomamente tutte le missioni. Nel 2005, i medici lo danno per spacciato a causa di un tumore maligno sul cuore, sotto lo sterno. «Ho chiamato don Oreste e gli ho detto che avevo pochi mesi di vita, ma lui "non ti preoccupare, prego la Madonna". Era in Perù, percorse la Via Crucis che porta a un santuario mariano sul lago Titicaca e tornò con una bottiglia di acqua benedetta, con cui mi bagnò. Con otto ore di operazione mi hanno rimosso il tumore, mentre le metastasi rilevate dalla Tac non c’erano più, vai a capire...», sorride.Sono troppi i ricordi che Oscar conserva del prete con cui, forse come nessun altro, ha condiviso giorni e notti. Ma sulla sua più grande dote non ha dubbi: «Ti faceva innamorare di Gesù. Lui stesso ha vissuto la Sua vita, passando dentro le impronte di Cristo». Eppure nemmeno lui era al riparo dal male che colpisce i santi, il tradimento: «Oscar – lo ammoniva spesso –, più cresce l’amore, più cresce chi lo combatte», ma non desisteva e portava la croce di Cristo in modo gioioso. «Viveva un sacrificio spropositato – continua l’amico –, era come vedere... sì, penso che assomigliava molto a Cristo, ha cercato di imitarlo in tutti i modi».L’ultima sera volle eccezionalmente, lui che non si concedeva un lusso, cenare al ristorante con gli amici più cari della Papa Giovanni. «Il mattino dopo sarebbe entrato in ospedale per un’angioplastica alle coronarie, così gli raccomandavo di stare a digiuno, ma lui mi fece un mezzo sorriso: "Oscar, domani siamo in marcia". Dopo poche ore mi hanno telefonato, nella notte del 2 novembre don Oreste era morto». L’ultima sua profezia sono le parole che proprio sulla pagina del 2 novembre aveva scritto mesi prima: “Nel momento in cui chiuderò gli occhi a questa terra, la gente che sarà vicino dirà: è morto. In realtà è una bugia. Sono morto per chi mi vede, per chi sta lì, ma la morte non esiste, perché appena chiudo gli occhi a questa terra mi apro all’infinito di Dio”.​
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