martedì 21 luglio 2015
La sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo esercita pressioni sull’Italia, ma lascia le cose sostanzialmente inalterate e rimanda la palla al nostro Parlamento. LE REAZIONI Forum delle famiglie - Movimento per la Vita 
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Una sentenza a due volti, che esercita pressioni sull’Italia ma che lascia le cose sostanzialmente inalterate rimandando la palla al nostro Parlamento per individuare lo strumento, i modi e i tempi. Esprimendosi sul caso di tre coppie formate da uomini, tutti italiani, la Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) di Strasburgo ha accolto i ricorsi chiedendo all’Italia di adottare qualche forma di riconoscimento legale per questo genere di convivenze, ma negando che debba trattarsi di matrimonio. Il caso più noto sul quale si è pronunciata la Cedu («Oliari e A.») era già approdato alla Corte Costituzionale, dopo due sentenze del Tribunale di Trento avverse alla richiesta di potersi sposare, dando luogo al verdetto più noto e autorevole in materia, quello che nel 2010 negò l’accesso al matrimonio invitando però il Parlamento a intervenire con riferimento alla coppia come formazione sociale e non solo agli individui. La Consulta, ricorda il collegio europeo (presieduto da un magistrato finlandese e composto da 7 giudici, uno dei quali italiano, Guido Raimondi) dichiarò «inammissibile» la loro richiesta ricordando che «toccava al Parlamento regolare, nei tempi, con i mezzi e i limiti fissati dalla legge, il riconoscimento giuridico dei diritti e dei relativi doveri». La Cedu ora nota che c’è «conflitto tra la realtà sociale dei ricorrenti, che in Italia per la maggior parte vivono la loro relazione apertamente, e la legge», che non gli garantisce «alcun riconoscimento ufficiale». Secondo la Corte europea, «un obbligo a provvedere al riconoscimento e alla protezione delle unioni dello stesso sesso non comporta nessun onere particolare per lo Stato italiano». I giudici aggiungono che «in assenza del matrimonio, l’opzione di una unione civile o di una partnership registrata sarebbe la via più appropriata per le coppie dello stesso sesso». A sostegno della sua tesi la Cedu esibisce per la verità due argomenti tutt’altro che irresistibili, notando anzitutto che tra i 47 Stati membri del Consiglio d’Europa (dei quali la Cedu è espressione) 27 «hanno approvato leggi in favore di questo riconoscimento»: una buona metà dunque l’ha fatto, ma è altrettanto vero che un’altra metà ancora si è astenuta dal farlo, evidentemente per qualche buona ragione. Un secondo argomento è che – scrive la Cedu – «secondo recenti sondaggi, una maggioranza della popolazione italiana sostiene il riconoscimento legale delle coppie omosessuali»: dal punto di vista giuridico, un ragionamento privo di alcun valore. È pacifico infatti che le sentenze non si scrivano scorrendo i sondaggi, sempre che questi siano attendibili, beninteso. Tirando le somme di questa parte della sentenza, la Cedu spiega che non c’è alcun «prevalente interesse della comunità a controbilanciare l’interesse dei ricorrenti per vedere riconosciute legalmente le loro relazioni». Per questo l’Italia dovrebbe individuare una «struttura legale specifica che provveda al riconoscimento e alla protezione» delle coppie formate da persone dello stesso sesso. Quale sia questa «struttura legale» per assicurare «una qualche forma di riconoscimento legale» la Corte non lo dice, limitandosi a una precisazione di grande importanza, non a caso taciuta nelle prime frettolose cronache e nelle conseguenti reazioni: la Cedu dichiara infatti «inammissibile» il ricorso nella parte che invoca l’articolo 12 della Convenzione europea per i diritti dell’uomo (diritto al matrimonio) perché esso «non impone un obbligo agli Stati di garantire l’accesso al matrimonio a coppie dello stesso sesso come le ricorrenti». Gli Stati possono legalizzare le nozze per queste coppie (l’hanno fatto 11 Stati aderenti, come ricorda la Cedu) ma la scelta resta a discrezione dei Parlamenti nazionali, secondo una consolidata giurisprudenza della stessa Corte europea su materie delicate come la famiglia e la vita. Al netto delle consuete strumentalizzazioni politiche della sentenza a uso interno, da Strasburgo dunque non arriva niente di sostanzialmente nuovo: i giudici europei chiedono semplicemente che l’Italia individui la forma giuridica che ritiene adeguata per le convivenze stabili tra persone dello stesso sesso. Cosa che l’Italia sta facendo.

 

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