venerdì 22 febbraio 2013
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Nel 2005, l’American Psychological Association (Apa) diede alle stampe con tutti i crismi dell’ufficialità e dell’autorevolezza un compendio sulla genitorialità omosessuale. Il lavoro conteneva un’asserzione – poi usata da tutti i sostenitori dell’equivalenza tra famiglie etero e famiglie omosex – che recita testualmente: «Nessuno studio ha riscontrato che i figli di genitori lesbiche o gay siano svantaggiati in alcun aspetto significativo in confronto ai figli di genitori eterosessuali». A supporto di questa tesi, l’Apa sfodera 59 studi condotti da ricercatori diversi, in tempi e modi differenti. Loren Marks, sociologa dell’Istituto di Ecologia Umana dell’Università statale della Louisiana, ha spulciato ogni paragrafo di quei 59 studi per scoprire se siamo davvero di fronte all’«emergere di una nuova forma di famiglia – spiega la Marks – che garantisce ai bambini un contesto equivalente a quello della famiglia tradizionale basata sul matrimonio». I promotori delle nozze tra persone dello stesso sesso rispondono entusiasticamente di sì, un nuovo modello è emerso, positivo e sostenibile. Molti altri sono scettici e si domandano se davvero crescere con due mamme o con due papà non abbia nessuna significativa conseguenza sui bambini. «Questa – spiega Marks – è una domanda con innumerevoli e importanti implicazioni, soprattutto da quando lo studio Apa del 2005 è stato ripetutamente invocato nel dibattito sul matrimonio omosessuale».Il lavoro della Marks – «Genitori dello stesso sesso e successo dei bambini: un esame approfondito del compendio dell’Apa sulla genitorialità lesbica e gay» – prende in analisi alcuni aspetti centrali del compendio degli psicologi americani: l’omogeneità del campione, l’assenza di gruppi di confronto, le caratteristiche dei gruppi di confronto (quando ci sono, ndr), la contradditorietà dei dati, la limitatezza dell’ambito dei successi presi in esame, l’esiguità di dati sulla buona riuscita dei bambini sul lungo periodo. Una scoperta interessante arriva subito, dall’analisi dell’omogeneità del campione. La Marks si domanda: quanto sono rappresentativi e culturalmente, etnicamente ed economicamente diverse le famiglie lesbiche o gay prese in esame dalla letteratura che sta alla base del compendio Apa? La risposta è sorprendente: i tre quarti di quegli studi, il 77%, esaminano un «campione ristretto, poco rappresentativo e opportunamente scelto» di meno di cento soggetti. Molti indicano addirittura meno di cento partecipanti alla ricerca, fino al limite estremo rappresentato da un lavoro del 1998 che di soggetti ne analizza solo cinque. Spiccata anche la tendenza a scegliere campioni omogenei dal punto di vista etnico e a trascurare le minoranze: otto dei 59 studi in esame specificano che il campione è formato da «bianchi» o da «caucasici» mentre la gran parte degli altri lavori neppure si prende la briga di specificare la composizione etnica del campione. Sono soprattutto le lesbiche, principalmente bianche, istruite e appartenenti alla classe media a entrare nei campioni. E gli uomini? Dei 59 studi citati dall’Apa solo otto li prendono in esame e di questi otto la metà non prevede un campione eterosessuale con cui fare il confronto. Dei quattro rimanenti, tre indagano i comportamenti dei padri e non i risultati ottenuti nella vita dai figli. Ancora più interessante la seconda questione affrontata dalla Marks che, procedendo con lo stesso metodo, parte da una domanda: quanti studi sulla genitorialità omosessuale non prevedono un gruppo eterosessuale di confronto? Nei 59 studi citati dall’Apa ce ne sono 26. Il che significa che il gruppo di ricerche credibili – quelle che confrontano gli esiti di una crescita con genitori omosex e con  genitori etero – scendono a 33. E di questi ben 13 non hanno usato per il confronto bambini cresciuti in un nucleo tradizionale ma in nuclei monogenitoriali, prevalentemente con la madre single o divorziata. Non sempre nei rimanenti 20 studi è specificato che genere di famiglia etero si sia presa in esame: se si tratta di una coppia di sposi o di conviventi, se gli sposi siano al primo matrimonio o se i conviventi arrivino da una precedente unione. Insomma, pochi dati e ben confusi...Terza domanda: esiste una ricerca che contraddica l’affermazione che «nessuno studio ha riscontrato che i figli di genitori lesbiche o gay siano svantaggiati»? Risposta: esiste almeno una notevole eccezione, la pubblicazione di Sotirios Sarantakos (1996), analisi comparativa di 58 bambini cresciuti con genitori eterosessuali sposati, altrettanti diventati grandi con mamma e papà conviventi e, infine, con genitori omosessuali. La conclusione cui arriva Sarantakos è che: «Complessivamente, lo studio ha dimostrato che i figli di coppie sposate hanno più probabilità di ottenere successi sia in termini di relazione sia di risultati». Infine ma non ultimo: che genere di risultati ottenuti dai bambini sono stati presi in considerazione? Non quelli che hanno una ricaduta sociale ma quelli legati all’identità sessuale e alla percezione del sé. Tralasciando i consueti aspetti su cui si focalizzano le ricerche sugli adolescenti e sui giovani: quanti di loro trovano proseguono gli studi e trovano lavoro? Quanti abusano di alcol o di sostanze stupefacenti, in che percentuale pensano al suicidio o si dedicano al crimine, hanno gravidanze precoci? Alla quasi totalità degli estensori dei 59 studi in quesione, queste domande paiono marginali...
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