venerdì 18 ottobre 2013
Dalla Caritas e dal Coordinamento nazionale delle Comunità di accoglienza la fotografia di un fenomeno che non accenna a diminuire: in 13 anni oltre 65mila le persone contattate dai 665 progetti di protezione sociale e 21.378 (1 su 5) hanno deciso di entrare in un programma di assistenza. L’appello al Governo: si faccia di più. Il racket si rafforza. Donne il 90% delle vittime.
LA STORIA Blessing, 19 anni di sogni infranti e cicatrici
LA PROPOSTA «Serve un fondo con risorse certe»
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Per la prima volta le forme di schiavitù in Italia vengono raccontate da chi le affronta in strada o nel chiuso di squallidi appartamenti. “Punto a Capo”, primo rapporto sulla tratta di Caritas, Cnca, Gruppo Abele e Associazione on the road presentato ieri a Roma, descrive i volti delle vittime, quasi tutte donne, e spiega che in 13 anni oltre 65mila persone sono state contattate dai 665 progetti di protezione sociale e 21.378, più o meno una su 3, hanno deciso di entrare in un programma di protezione e assistenza assicurato dalla legge italiana. Altre 3.770 persone, dal 2006 al 2012, hanno beneficiato di 166 progetti in base alla legge sullo sfruttamento sessuale. La tratta in Italia è gestita da gruppi criminali radicati nei Paesi di destinazione, con collegamenti transnazionali e notevoli capacità di abbinamento ad attività come traffico di migranti, droga e armi e il riciclaggio di denaro sporco. Pur rimanendo la prostituzione forzata in strada la tipologia di tratta più visibile e conosciuta, nel corso dell’ultimo decennio è progressivamente aumentato il numero di casi identificati di persone trafficate e sfruttate in altri ambiti, tra cui quelli economico-produttivi e, in particolare, in agricoltura, pastorizia, edilizia, manifatture, lavoro di cura. Per lo sfruttamento sessuale e lavorativo i principali canali d’ingresso sono l’Europa dell’Est e la rotta Maghreb-Sicilia, per l’accattonaggio la rotta attraversa l’Europa dell’Est. Le persone cadono vittima di tratta per sfuggire alla povertà, a discriminazioni di genere ed etniche, a conflitti regionali. Nella maggior parte dei casi l’espatrio è volontario, ma il debito contratto con il racket è un fattore di vulnerabilità "decisivo" che riduce in schiavitù. Le persone trafficate vivono infatti in condizioni misere, fanno uso o abuso di alcool e stupefacenti, sviluppano problemi di salute mentale e subiscono forme di discriminazione e di violenza molto cresciuta negli ultimi anni. Sono costrette a subire condizioni di vita e di lavoro disumane con orari di lavoro molto lunghi e senza pause intermedie, retribuzioni molto inferiori a quelle pattuite o stabilite per legge; quando ci sono. E vengono illuse rispetto all’ottenimento di permessi di soggiorno, per cui, a volte, sono costrette a versare del denaro I luoghi di sfruttamento si sono moltiplicati. Non ci si prostituisce più solo in strada e nei luoghi al chiuso, ma anche in stazioni e centri commerciali. E chi mendica lo fa sempre più in prossimità dei centri commerciali e sui mezzi pubblici. Sempre più rilevante il web come punto di incontro della domanda e offerta di prestazioni sessuali, di lavori stagionali in agricoltura, di cura o altro. Nel 2012 continuano a essere vittime di prostituzione soprattutto le giovani tra i 18 e i 25 anni, più del 50%. I paesi di origine delle persone assistite dagli enti sono Nigeria e Romania, in costante crescita Brasile, Marocco e Cina. Si registra il ritorno dell’Albania. I clienti sono perlopiù uomini di tutte le età e condizioni sociale e nel 2013 sette su dieci hanno pagato di più per rapporti non protetti. Con la crisi sono aumentate rapine e violenze a scopo di estorsione, così come gli atteggiamenti razzisti. Se l’Italia sta contrastando con una peculiare rete di servizio pubblico e privato lo sfruttamento della prostituzione, oggi sono le vittime di sfruttamento lavorativo a faticare per trovare protezione. Nel 2012 dei 520 permessi rilasciati come "Soggiorno per protezione sociale", 440 sono stati concessi per sfruttamento sessuale e solo 80 per quello lavorativo. «A fronte – commentano Caritas e Cnca – di decine di migliaia di lavoratori stranieri su tutto il territorio nazionale, gli strumenti di tutela appaiono deboli nonostante la recente introduzione del reato di caporalato e l’inasprimento del sistema repressivo verso gli sfruttatori». Si riparte da qui.
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