lunedì 16 luglio 2012
​Vent'anni dopo la strage di via d'Amelio parla ​padre Cesare Rattoballi, 54 anni, parroco in un quartiere della periferia di Palermo e amico del giudice: Paolo è stato un martire per la giustizia.
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Il 19 luglio 1992 un’autobomba uccise in via D’Amelio a Palermo il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti di scorta, Emanuela Loi, Claudio Traina, Vincenzo Li Muli, Eddie Walter Cosina e Agostino Catalano. Una strage annunciata, avvenuta in un’afosa domenica, 57 giorni dopo quella di Capaci, in cui persero la vita Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti di scorta. È questa l’unica cosa certa, perché vent’anni, undici processi, una sfilza di ergastoli, sette dei quali annullati l’anno scorso, non sono ancora bastati per fare luce su una strage di Stato. Del massacro di via D’Amelio è stata ritenuta responsabile tutta la Cupola di Cosa Nostra. Secondo il procuratore di Caltanissetta, Sergio Lari, e i suoi sostituti – che negli ultimi tre anni hanno provato a togliere il velo della mistificazione su una delle pagine più oscure della storia d’Italia – «Borsellino fu ucciso perché si oppose alla trattativa tra Stato e mafia». A dare lo spunto per le nuove indagini, sono state le dichiarazioni di Gaspare Spatuzza. Secondo la Procura di Caltanissetta, che ha chiesto e ottenuto la sospensione della pena per sette ergastolani ritenuti estranei al delitto e l’arresto di altri quattro affiliati a Cosa nostra, Borsellino fu ucciso perché Riina lo riteneva un ostacolo alla trattativa con esponenti delle istituzioni. «Paolo Borsellino aveva piena consapevolezza di stare per morire, ma continuò a fare il suo dovere fino alla fine. Per questo mi piace dire che rientra tra i beati a causa della giustizia». Don Cesare Rattoballi, 54 anni, parroco dell’Annunciazione del Signore a Medaglie d’Oro, un quartiere della periferia di Palermo, è un testimone privilegiato del travaglio degli ultimi mesi di vita del magistrato ucciso nella strage di via D’Amelio con cinque agenti di scorta. Il 19 luglio saranno vent’anni da quella esplosione che, assieme a quella del 23 maggio 1992, cambiò la storia della Sicilia e dell’Italia intera, ma le lacrime gli sgorgano ancora al pensiero delle lunghe chiacchierate col giudice Borsellino, delle confidenze raccolte e di ciò che vide in quella strada sventrata.Accetta di parlare dopo vent’anni di silenzio don Cesare, che il mondo ricorda al fianco della vedova Rosaria Schifani durante i funerali delle vittime della strage di Capaci, mentre dall’ambone invoca la conversione dei mafiosi. Perché don Cesare era cugino di Vito Schifani, uno degli agenti di scorta morti assieme al giudice Giovanni Falcone, e – per casi della vita che nessuno conosce – si è trovato a incrociare il suo destino con quello di altre vittime di mafia, da Calogero Zucchetto, un giovane poliziotto ucciso nel 1982 al centro di Palermo proprio mentre don Cesare passava da quella strada, a don Pino Puglisi, il sacerdote ucciso dalla mafia nel 1993.Don Cesare, come nasce il suo rapporto con Borsellino?Facevamo parte della stessa parrocchia, Santa Luisa di Marillac, perché anche io abitavo in quella zona, quindi ci salutavamo cordialmente. Ma fu la notte della camera ardente allestita al Palazzo di giustizia dopo la strage di Capaci ad avvicinarci. Io mi trovavo lì, perché mio cugino era tra le vittime. Quella notte io e la moglie di Vito Schifani scrivemmo la lettera che fu letta durante i funerali. Quella sera feci una lunga chiacchierata con Paolo Borsellino, lui volle conoscere la vedova di Vito, e al mattino, prima dei funerali, le mise il braccio sulla spalla per accompagnarla. Era un padre.Il giudice rimase colpito dalle parole che Rosaria Schifani disse piangendo: «Rivolgendomi agli uomini della mafia e non, ma certamente non cristiani: sappiate che anche per voi c’è possibilità di perdono. Io vi perdono, però voi vi dovete mettere in ginocchio…». Cosa le disse?A Borsellino piacque moltissimo quell’invito alla conversione. Mi disse di andarlo a trovare a casa con mia cugina. Ci disse che quello che avevamo fatto quel giorno stava già dando i suoi frutti, che alcuni mafiosi in carcere, quando avevano visto in tv lo strazio di quella donna, avevano vomitato, avevano chiesto di parlare coi magistrati. Paolo ci disse di andare avanti. In meno di due mesi ci incontrammo almeno una quindicina di volte. Lo invitai a partecipare alla marcia organizzata dagli scout a fine giugno, perché ero assistente regionale dell’Agesci. Affidò il testimone ai ragazzi e in quel rotolo di carta c’erano scritte le Beatitudini.Con che stato d’animo viveva Borsellino quelle settimane?Un giorno nel suo studio a casa mi confidò che il Ros aveva scoperto che era arrivato il tritolo anche per lui. Gli chiesi: «Perché non te ne vai?». Mi rispose: «Prega per la mia famiglia». E mi disse anche che da un po’ di tempo guardava i suoi figli da lontano, li contemplava, non gli dava più carezze, «così li farò abituare alla mia assenza. Amava profondamente i suoi figli, era un vero padre.Quale fu il vostro ultimo incontro?Andai a trovarlo in Procura alla vigilia della sua morte e, dopo un lungo colloquio, mi disse: «Fermati, voglio confessarmi. Vedi, io mi preparo». Aveva un senso profondo di ciò che doveva accadere. Giovanni Paolo II lo definì martire della giustizia e davvero penso che Paolo e tutti i magistrati e gli agenti uccisi dalla mafia sono beati a causa della giustizia.Ha mai pensato quello che disse il giudice Caponnetto: «È finito tutto»?No, ho sempre sperato. Quello di Caponnetto fu uno sfogo dettato dall’amarezza del momento. Lì non finì nulla, anzi tutto ebbe inizio. Palermo oggi è libera. Se nessuno avesse dato la vita, saremmo ancora schiavi.Si riuscirà a capire chi ordinò davvero la strage?Paolo direbbe ancora oggi: convertitevi. Chi sa, chi conosce la verità, deve parlare, perché la verità vuole la sua giustizia.
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