sabato 15 ottobre 2011
​Esposte opere dei laboratori di Sant'Egidio. I docenti della Sapienza seguono 35 ragazzi negli incontri con artisti contemporanei.
Arte e disabilità. Contro l'efficientismo di Davide Rondoni
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​Francesca, disabile, aveva la mano impedita. Da quando frequenta i laboratori d’arte – «Gli Altri», così si chiamano – della Comunità Sant’Egidio, quella mano sa scattare alla macchina fotografica dei clic che fanno trattenere il fiato, come testimonia il suo maestro César Meneghetti. Ecco perché Mario Marazziti della Comunità Sant’Egidio non ha dubbi: «L’arte dei disabili è arte vera. Infatti, esce dal ghetto ed entra, dalla porta principale, alla Biennale». Siamo a Venezia, alla Biennale d’arte, ed è proprio qui che ieri è stato presentato il progetto artistico «I/o. Io è un altro», che l’artista italo-brasiliano Meneghetti sta realizzando insieme con i disabili dei laboratori sperimentali di Sant’Egidio. La curatrice è Simonetta Lux, professoressa di storia dell’arte contemporanea della Sapienza di Roma e il suo convincimento, ormai da lungo tempo, è che «l’altro e il diverso non solo possono, ma devono essere inclusi in tutti i processi dell’educazione, della creazione e della costruzione sociale, come una preziosa risorsa di intelligenza e di immaginario». La professoressa Lux e il collega Alessandro Zuccari, docente di storia dell’arte moderna della Sapienza, accompagnano da tempo i laboratori dove s’incontrano 35 grandi artisti contemporanei con i ragazzi. I risultati sono stati presentati al Museo laboratorio di arte contemporanea della stessa Sapienza. Un’opera è in definizione per i 150 anni dell’Unità d’Italia che sarà accolta il 3 dicembre nelle sale espositive del Quirinale. Alla Biennale di Venezia, numerosi studiosi hanno approfondito, ieri in un convegno, ogni possibile aspetto di queste forme artistiche. Proponendo una riflessione sull’intrigante provocazione «Non dire raka al tuo fratello», il professor Zuccari ha ricordato che «tutto ha avuto origine all’inizio degli anni Settanta dall’impegno di Sant’Egidio nella periferia di Roma e nel vecchio rione di Trastevere dove accadeva di incontrare persone con disabilità fisiche e mentali, non solo vittime del pregiudizio, ma spesso nascoste per paura e vergogna dalle proprie famiglie, allora segnate da un pesante giudizio sociale e da una totale assenza di sostegno e assistenza». L’unica risposta istituzionale era – ed è in parte ancor’oggi – la segregazione negli istituti e negli ospedali psichiatrici. «Erano giovani e meno giovani, per lo più considerati presenze ingombranti e imbarazzanti, talvolta condannati da diagnosi infondate, esclusi dal mondo del lavoro e discriminati dalla scuola (l’abolizione delle classi differenziali si deve alla legge 517 del 1977 che fa dell’Italia l’unico Paese europeo che prevede, almeno giuridicamente, la piena integrazione scolastica)». Come è stata vinta la paura? Ricorrendo anche al Vangelo. «La novità introdotta dai Vangeli – novità che per indifferenza e resistenze ideologiche stenta ancora ad affermarsi – sta nel vedere nel disabile, nel malato, l’uomo che soffre, la persona e non l’essere “inutile” e ripugnante – spiega Zuccari –. Perciò Gesù guarda il disabile, l’indemoniato, il malato, lo tocca senza alcun timore di contagio. Partecipa al dolore dell’altro. Per lui l’handicap non è frutto del destino o di una colpa, non riduce mai l’altro al deficit che manifesta perché distingue la persona dal sintomo e ristabilisce l’unità tra “corpo” e “anima”. Così facendo rompe lo stigma e il cerchio marginalizzante, ripristina la fiducia e scardina l’idea della pericolosità dell’infermo (i lebbrosi) come del disabile fisico e mentale».
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