lunedì 7 maggio 2012
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Dalla residenza gesuitica di via degli Astalli a Roma padre Paolo Bachelet, classe 1922, ricorda come fosse ieri la morte tragica, avvenuta quel lontano 12 febbraio del 1980 di suo fratello Vittorio, allora vicepresidente del Csm e non dimentica certo l’esempio fulgido dell’altro fratello, anche egli figlio di Sant’Ignazio, Adolfo, scomparso nel 1995, che spese buona parte del suo ministero nelle carceri italiane per promuovere un cammino di riconciliazione, testimoniato anche dal bel libro, edito tanti anni fa, da Rusconi, Tornate ad essere uomini liberi!. «Mi trovo molto con la scelta del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano – ricorda l’anziano gesuita e ultimo "sopravvissuto" dei nove fratelli Bachelet – di ricordare il 9 maggio di ogni anno le vittime del terrorismo. Un atto di restituzione della memoria soprattutto per i giovani che non hanno coscienza di quel periodo e che ad esempio non hanno potuto conoscere la storia e la cifra umana di mio fratello Vittorio come di tante altre persone, in molti casi meno note, vittime inconsapevoli e innocenti di questi attentati».Padre Bachelet, tra voi familiari eravate consapevoli dei rischi che suo fratello Vittorio stava correndo?«Tutti in famiglia eravamo coscienti del pericolo che Vittorio correva. Anche in passato era solito chiedere a noi familiari preghiere per lui. Negli ultimi tempi questa richiesta di preghiera si era intensificata. Solo dopo la sua morte abbiamo saputo che era stato informato di essere nel mirino delle Brigate Rosse, e abbiamo capito il perché della sua insistenza. Non ci aveva avvertito, per non farci stare in pensiero. Ricordo che gli era stata offerta la scorta, ma lui l’aveva rifiutata per evitare che altre persone innocenti rimanessero vittime di quegli attentati come accadde solo due anni prima per Aldo Moro».Come venne a sapere della morte di suo fratello Vittorio e come reagì a questa notizia?«La notizia della sua morte non mi ha sorpreso. Ne prevedevo chiaramente la probabilità. Mi trovavo ad Anagni e giunsi a Roma quando la salma era già stata portata all’obitorio. Mi recai nella sua casa. Fu un succedersi di persone dalle più alte cariche dello Stato agli amici più semplici. Quello che mi colpì, in quel frangente, è che persone di convinzione politiche molte diverse ne ricordarono le virtù come la sua grande statura umana e professionale allo stesso modo e con la stessa partecipazione».I funerali di suo fratello ebbero un forte impatto sulla coscienza del Paese. Cosa ricorda di quel 14 febbraio del 1980?«In quella Messa presieduta dal cardinale vicario Ugo Poletti si respirò un clima di serenità e di perdono, di Resurrezione più che di morte. Commossero tutti le parole di mio nipote Giovanni, quando pregò «anche per coloro che hanno colpito il mio papà». Il presidente Pertini, che era presente, volle in seguito incontrare Giovanni, e tra l’altro gli disse: "Non sono credente, ma non sono indifferente"».Ma sul fronte del perdono chi giocò un ruolo chiave in questo percorso è stato suo fratello maggiore, il sacerdote gesuita Adolfo Bachelet…«Tre anni e mezzo dopo nel 1983 ricevette una lettera firmata da 18 ex terroristi, anche delle frange delle Br che lo invitavano ad andare a trovarli in carcere. Da lì è incominciata la missione di mio fratello nelle carceri italiane, da Cagliari ad Aosta, dove ha intrattenuto rapporti con i detenuti, ha affrontato con loro un cammino di ripensamento sulle loro azioni. Di molti divenne amico e li ha seguiti anche dopo l’uscita dal carcere».Un cammino di riflessione e di ripensamento su quei reati che diede frutti inaspettati…«Mio fratello Adolfo spese buona parte della sua vecchiaia in questo cammino di ripensamento e di riflessione con molti di questi ex-terroristi appartenenti sia alle frange di destra e di sinistra. Ebbe contatti diretti con alcuni degli autori dell’attentato a suo fratello Vittorio. Quello che sorprese è che vi fu, spesso, un vero cammino di ravvedimento e di autocritica e in molti casi di riparazione per quanto era umanamente possibile e per alcuni, addirittura, di approdo alla fede religiosa».Per molti osservatori la morte di Vittorio Bachelet ha significato l’inizio del declino delle Brigate Rosse. È stato veramente così?«In un certo senso credo di sì. Alcuni ex terroristi hanno detto : "Noi siamo stati sconfitti quando siamo stati perdonati".Proprio a partire dal 1980 (anno della morte di Vittorio) cominciò a spezzarsi la spirale della violenza delle Br e a crescere in molti di loro la consapevolezza del completo fallimento del loro progetto eversivo. Molti cominciarono a parlare e si scoprirono molti dei loro covi». A tanti anni dall’uccisione di suo fratello che eredità può essere consegnata alle giovani generazioni?Credo che innanzitutto sia importante mantenere viva la memoria di quei fatti e così allo stesso tempo tenere viva nei giovani la drammatica lezione che ci viene da quei terribili anni. Ma allo stesso tempo ritengo che sia necessario far conoscere alle giovani generazioni i grandi esempi di coraggio e di rettitudine di molte vittime del terrorismo. Di mio fratello Vittorio mi torna spesso in mente la sua mitezza di carattere. Sul cartoncino-ricordo di Vittorio, accanto alla foto del suo volto sorridente sono stati riportati due passi biblici. Il primo è l’invito che Dio ha fatto per incoraggiare il suo popolo a non avere paura e ad affidarsi a lui (Giudici 7,9). L’altro riporta alcune delle beatitudini del Vangelo di Matteo. E non è un caso che virtù come mitezza, giustizia, misericordia e coraggio siano alcuni degli aspetti che hanno caratterizzato la vita di Vittorio. Credo che tutto questo bagaglio di memoria e di esempi di persone coraggiose, miti e rette possa aiutare i giovani a leggere la storia passata in modo positivo e allo stesso tempo a mantenere alta la coscienza civile del nostro Paese».
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