domenica 10 aprile 2016
La piattaforma si trova da vent’anni davanti alle spiagge: oggi tutti chiedono che sia rimossa, anche chi voterà no al referendum per salvare il lavoro
Trivelle, Ravenna (ri)fa i conti
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Se la vedesse oggi, con quelle gambone piantate nell’acqua, Federico Fellini le dedicherebbe sicuramente un cammeo di Amarcord. Altro che la Gradisca. Peccato che siamo a Ravenna e non a Rimini: l’Angela Angelina sarebbe davvero un personaggio felliniano, con quella sua natura ambigua e seduttiva; mostruosa e ingombrante, accusata di devastare il mare e far scappare i turisti, ma al tempo stesso materna e generosa, dispensatrice di lavoro e ricchezza. E soprattutto tanta, come piaceva al Maestro: non si può fare a meno di notarla, visto che da vent’anni staziona a due chilometri dalla spiaggia e, di riffa o di raffa, s’infila in tutti i dibattiti. «Stiamo ragionando con l’Eni sulla chiusura anticipata del pozzo che provoca lo sprofondamento di Lido di Dante e l’erosione delle spiagge, ma non siamo contro le trivelle, che danno lavoro ai ravennati»: con franchezza romagnola, il vicesindaco Giannantonio Mingozzi inquadra il paradosso Ravenna. Da anni, la Giunta, i cittadini dei lidi, i bagnini e gli albergatori fanno la guerra alla piattaforma in bella vista che accelera la subsidenza, ossia lo sprofondamento del terreno, ma poi si dividono sul voto referendario. Il 17 aprile sceglieranno sì i proprietari degli stabilimenti balneari – «anche se l’Eni, lo riconosciamo, ha investito dei soldi per mitigare l’impatto delle estrazioni» ammette il presidente Riccardo Santoni –, gli ambientalisti, molti albergatori e cittadini. Le sfumature, tuttavia, sono importanti. Marco Ferretti, portavoce del comitato di Lido di Dante, la località più colpita dalle conseguenze dell’estrazione di gas, puntualizza ad esempio che questa «non è una battaglia No Triv: noi vogliamo fermare 'quella' piattaforma perché provoca uno sprofondamento di uno-due centimetri all’anno ed erode le spiagge, con la conseguenza che le mareggiate più forti entrano addirittura in paese, com’è avvenuto lo scorso anno, ma il referendum non ci aiuta, in quanto, anche se vincessero i 'sì', la concessione dell’Angela Angelina arriverebbe comunque fino al 2027. Occorre dunque un’azione politica decisa per salvare la costa ravennate». A Lido di Dante risiedono in 170 e il paese esplode d’estate, grazie ai due campeggi e alle case in affitto. La pineta attira il turismo familiare da sempre, ma da qualche anno gli alberi rinsecchiscono a causa delle risalienze saline e anche le dune dell’area protetta sono a rischio. Il 31 marzo, il Consiglio Comunale di Ravenna ha adottato un ordine del giorno (a favore Pd, Sel e Pri, contro FI, Lista per Ravenna, Lega nord Romagna, Ncd e Movimento Cinque stelle) che punta a rivedere gli accordi con l’Eni, «per conservare al meglio un sistema ambientale litoraneo di altissimo valore ». Due le richieste: chiudere subito l’Angela Angelina e trasferire le royalties dalla Regione agli enti locali, per destinarle alla difesa del territorio. A questo ritmo, infatti, il ripascimento delle spiagge costerà 13 milioni di euro all’anno; secondo Legambiente, le concessioni hanno già sottratto sabbia dal Po a Rimini per un controvalore di un mi- liardo di euro, mentre le compagnie petrolifere versano ogni anno royalties per 'soli' 7,5 milioni. Questi numeri basterebbero per trasformare ogni ombrellone in un gazebo No Triv; invece, come ci spiega l’assessore ai lavori pubblici di Ravenna Roberto Fagnani «il nostro problema non è il rinnovo delle concessioni entro le dodici miglia, ma di vietarle entro le sei miglia, dove gli effetti della subsidenza sono più devastanti». Diciamo subito che la subsidenza romagnola (che secondo l’Eni non dipende solo dall’estrazione di metano) è identica a quella polesana, eppure, appena superato il grande fiume, il Pd, che in Veneto è schierato sul fronte del 'sì', si trova invece allineato al governo – l’indicazione è quella di votare 'no' o andare al mare, almeno finché c’è la spiaggia... – per ragioni politiche oltre che economiche.  L’Emilia-Romagna è la culla delle estrazioni di idrocarburi e malgrado la sua vocazione metanifera rappresenti anche un nervo scoperto – come dimostra il caso del deposito sotterraneo di Rivara, messo in relazione con il terremoto del 2012 – non ha aderito alla richiesta di referendum avanzata da nove amministrazioni regionali. Il governatore, il democratico Stefano Bonaccini, è un renziano post-bersaniano della prima ora e, di certo, non muore dalla voglia di esprimersi sul voto del 17 aprile, che interpella la coscienza ambientale della sinistra, ma anche un modello di sviluppo che, passando da Bersani a Renzi, non ha avuto dei sostanziali mutamenti di rotta. Se, nelle prossime ore, Bonaccini parlerà, lo farà con grande garbo e prudenza, sfruttando il ruolo istituzionale di presidente della Conferenza delle Regioni per non intestarsi una sfida che divide gli interessi dagli ideali. I primi ce li spiega il repubblicano Mingozzi, con le stesse parole che avrebbe usato Ugo La Malfa: «Delle cinquanta piattaforme dell’Alto Adriatico, un quinto si trova davanti alle nostre coste. Alcune potrebbero essere bloccate dal referendum e qui voteremo tutti 'no'. Perché? In Emilia-Romagna troviamo un migliaio di imprese offshore e quasi il 20% sono a Ravenna, creano lavoro per 6.800 persone, tremila dei quali ravennate. Senza contare il porto: il 20% delle attività è legato agli idrocarburi. Mi pare chiaro che si debba trovare un accordo per salvare la costa dalla subsidenza senza cancellare un intero settore industriale». È quel che spera anche la Ravenna Offshore Contractor Association (Roca), che cita il 'Mai più' con cui lo scomparso cardinale Ersilio Tonini commentò nel 1987 la morte di 13 operai per l’esplosione di una gasiera per spiegare come gli imprenditori del settore intendano il lavoro sulle trivelle: «come un diritto che dà dignità alle persone. Da noi, oggi così come si faceva una volta, quando cominciamo a lavorare con qualcuno, siamo consapevoli di assumere tutta la famiglia, che potrà contrarre un mutuo per la casa, iscrivere il figlio all’università, curare un parente malato…» La leva occupazionale è un’arma potente e la Roca – abilmente – la usa, ricordando agli elettori romagnoli che 900 lavoratori del settore hanno già perso il lavoro per effetto della crisi e altri 2.300 lo perderanno nel corso dell’anno...
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