sabato 9 luglio 2016
Un libro racconta oggi quella stagione, la leggenda delle donne incinte che avrebbero partorito mostri e che dovevano abortire. (A. Mariani)
LA FOTOGALLERY  Il disastro di Seveso 40 anni dopo
Seveso, 40 anni dopo i veleni restano
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Nei dibattiti pubblici e sui giornali si parlava per slogan: «Peggio di Hiroshima» oppure «Più diossina che in Vietnam». E chi provava a guardare ai fatti senza cedere al catastrofismo era iscritto d’ufficio al poco lusinghiero «partito della consolazione». C’era chi urlava nelle piazze «O aborto o mostro in pancia», pensando poco alle donne incinte e molto alla legge sull’interruzione di gravidanza che sarebbe arrivata di lì a poco. E chi invece cercava di ascoltare le paure di quelle stesse donne. Seveso, 10 luglio 1976, il giorno della fuga di gas dall’impianto Icmesa di Meda. Da quell’angolo inquinato di territorio brianzolo spuntarono frutti malati, come lo sfollamento di 736 persone (218 famiglie), 108 ettari di terreno da bonificare e nel medio periodo un aumento definito «modesto» di tumori e leucemie che perdura tutt’oggi; su un altro versante ci fu la crudele manipolazione dell’opinione pubblica allo scopo di accelerare la legalizzazione dell’aborto nel nostro Paese. Ma dalla fuga di diossina germogliò anche uno straordinario tessuto di partecipazione e civismo vivo ancora oggi, 40 anni dopo, che ora viene documentato in un libro utile e necessario, Seveso 1976, oltre la diossina di Federico Robbe con la prefazione di Andrea Tornielli (Itaca, euro 12,50). I fatti Era un caldissimo mezzogiorno di mezza estate, quando il malfunzionamento dell’impianto di distillazione del triclorofenolo, causato dalla superficialità degli addetti, proiettò in cielo un pennacchio di gas di 50-60 metri. La nube si spostò più in là, sopra Seveso. Subito ci furono occhi arrossati, guance di bambini ricoperte di pustole, morìa di conigli e galline. Ma l’Italia iniziò a capire parecchi giorni dopo: il primo articolo comparve il 17 luglio a firma Mario Galimberti su Il Giorno: «Bimbi rossi e gonfi per una nube di gas». Ne parlò tutto il mondo. Il 24 luglio i residenti dell’area più infestata, a cavallo tra Seveso, Meda, Cesano Maderno e Desio, furono sfollati e trasferiti altrove, per tornare nelle proprie case un anno e mezzo più tardi. Furono organizzati controlli sanitari capillari; medici e scienziati andarono a caccia di ogni possibile studio nel mondo sugli effetti tossici della diossina. Ce n’erano sugli animali, non sugli uomini. «Mostro in pancia o aborto» Ma in molti capirono tutto subito: le donne incinte avrebbero partorito mostri. Bisognava convincerle ad abortire. 42 furono quelle che cedettero a quelle pressioni vigliacche. Non c’era ancora la legge 194 (sarebbe stata approvata nel maggio 1978), ma si trovò la "copertura" giuridica in una sentenza della Corte costituzionale che nel febbraio 1975 aveva stabilito che per poter abortire non contava il rischio per il feto ma la «salute psichica della donna». L’incombenza fu demandata alla Mangiagalli di Milano e all’ospedale di Desio. Un sindaco raccomandò di «non procreare per sei mesi». A cose fatte, furono studiati i feti abortiti: nessuna anomalia visibile, anche se naturalmente gli strumenti diagnostici non sono gli stessi di oggi. Un popolo «in uscita» In questo clima tormentato c’era un popolo che si muoveva: erano i giovani cattolici brianzoli, che in modo spontaneo e trascinante decisero di «uscire» e mettersi al servizio. Erano freschi di studi in medicina o psicologia, educatori, studenti, ragazze e ragazzi di oratorio. Semplicemente, ciascuno facendo la sua parte, diedero la migliore dimostrazione di cosa vuol dire «essere Chiesa». L’arcidiocesi di Milano, guidata da Giovanni Colombo, aprì a Seveso un Ufficio decennale di assistenza e coordinamento (Udac). I giovani volontari, per la maggior parte vicini al movimento di Comunione e liberazione, organizzarono centri estivi per i bambini, trasportandoli tutti i giorni fuori dal territorio contaminato. All’Udac c’era un laboratorio di analisi, professionisti che assistevano nelle pratiche legali per i risarcimenti, altri che tenevano i rapporti con imprenditori e artigiani brianzoli, colpiti da una impasse improvvisa. Fu fondato un giornale, Solidarietà, distribuito porta a porta, sul quale comparivano firme come quelle di don Dionigi Tettamanzi, monsignor Giovanni Battista Guzzetti, don Gervasio Gestori. Nei mesi caldi successivi a quel 10 luglio e per circa un anno, il periodico arrivò a distribuire 60mila copie per ogni uscita. Fu tra i pochissmi, insieme ad Avvenire, che combatteva punto per punto il terrorismo psicologico che allora si fece sulla pelle soprattutto delle donne. Sulla loro pelle Il libro di Robbe documenta, per chi non lo ricorda, che le pressioni furono fortissime. Gruppi di femministe davanti al consultorio pubblico di Seveso attendevano le future madri agitando le gigantografie di neonati focomelici o deformi. Si disse con disprezzo che quello dei cattolici era il «partito della consolazione», che chiudeva gli occhi e li faceva chiudere alle donne per opposizione ideologica all’aborto. Era vero l’esatto contrario: alle future mamme, quei giovani volontari, quei medici e quei sacerdoti aprivano il cuore alla speranza. Non minimizzavano l’allarme diossina, ma non volevano soccombergli. Credevano nel futuro. Credevano nella vita.
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