L'orrore delle violenze subìte in Libia si ritrova nelle
testimonianze dei profughi: Amnesty International ne ha raccolte circa novanta nei centri d'accoglienza della Puglia e della
Sicilia. Storie che parlano di abusi da parte di trasportatori,
trafficanti, gruppi armati e bande criminali. Almeno 20 delle persone intervistate da Amnesty International hanno riferito,inoltre, di episodi di violenza da parte della guardia costiera e nei centri di detenzione della Libia.Centinaia di migliaia di profughi - attualmente oltre 264.000, secondo l'Organizzazione internazionale delle migrazioni - si trovano in Libia, per lo più provenienti dall'Africa sub-sahariana, in fuga da guerre, persecuzione e povertà estrema e spesso in cerca di salvezza in Europa. Secondo l'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, circa 37.500 sono i rifugiati e i richiedenti asilo registrati, la metà dei quali siriani. In tutto il Paese, lungo la rotta sud-nord, dal deserto ai porti del Mediterraneo, si è imposto un redditizio traffico di esseri umani.
Abusi, uccisioni, torture e persecuzione religiosa«Questi
rifugiati hanno raccontato l'orrore che sono stati costretti a
subire in
Libia: rapimenti, detenzione in carceri sotterranee per mesi, violenza sessuale, pestaggi, sfruttamento, uccisioni - ha
spiegato
Magdalena Mughrabi, vicedirettrice ad interim del
programma Medio Oriente e Africa del nord di
Amnesty
International - . La loro testimonianza fornisce un quadro
terrificante di ciò da cui chi arriva in Europa ha cercato
disperatamente di fuggire. L'Unione europea e i governi su scala
mondiale dovrebbero incrementare di gran lunga il numero dei
reinsediamenti e dei visti umanitari in favore dei rifugiati più
vulnerabili».
Vittime della tratta di esseri umaniLa maggior parte delle
persone con cui
Amnesty International ha parlato ha denunciato di
essere stata vittima di tratta di esseri umani. I migranti e i
rifugiati sono presi dai trafficanti appena entrati in Libia o
vengono venduti alle bande criminali. «Quando arrivi in Libia,
quello è il momento in cui inizia tutto, quando cominciano a
picchiarti», ha raccontato Ahmed, 18 anni, proveniente dalla
Somalia e arrivato in Libia nel novembre 2015 attraverso il
Sudan. I trasportatori si rifiutavano di dare da bere e a volte
sparavano a chi supplicava un goccio d'acqua, come è successo a
un gruppo di siriani che stava morendo di sete. «Il primo siriano
morto era un giovane, poteva avere 21 anni. Dopo ci hanno dato da
bere ma nel frattempo era stato ucciso un altro siriano di 19
anni».
Violenze sessuali durante il viaggioAmnesty International ha
parlato con 15 donne, la maggior parte delle quali ha raccontato
di aver temuto di subire
violenza sessuale in ogni momento del
viaggio verso la costa libica. Gli
stupri sono talmente comuni
che molte donne assumono contraccettivi prima di mettersi in
viaggio, per evitare di rimanere incinte. La
violenza è commessa
dai trasportatori, dai trafficanti o dai gruppi armati, sia
durante il viaggio che nella fase di attesa dell'imbarco verso
l'Europa. Ramya, un'eritrea di 22 anni, è stata stuprata più di
una volta dai trafficanti che la tenevano prigioniera in un campo
nel nord-est della
Libia, dove era entrata nel marzo 2015: «Dopo
aver bevuto alcool e fumato hashish, le guardie entravano e
sceglievano le donne. Poi le portavano fuori. Loro cercavano di
opporsi ma quando hai una pistola puntata alla testa, non hai
altra scelta se vuoi sopravvivere. Mi hanno stuprato due o tre
volte. Non volevo perdere la vita».
Estorsioni e rapimenti
Molti dei profughi e dei rifugiati
incontrati da
Amnesty International hanno raccontato di essere
stati fatti prigionieri a scopo di riscatto. Erano tenuti in
condizioni squallide, privati di cibo e acqua, picchiati,
minacciati e insultati costantemente. Semre, 22 anni, eritreo, ha
testimoniato di aver visto quattro persone morire di malattie e
inedia durante la prigionia: «Nessuno li ha portati all'ospedale
e alla fine li abbiamo dovuti seppellire noi stessi».Il padre di
Semre ha fatto arrivare i soldi del riscatto ma i trafficanti,
anzichè liberarlo, lo hanno venduto a un'altra banda di
criminali. Saleh, 20 anni, eritreo, è entrato in
Libia
nell'ottobre 2015. I trafficanti lo hanno immediatamente portato
in un hangar nella zona di Bani Walid, dove è rimasto 10 giorni.
In quel periodo, ha visto un uomo che non poteva pagare il
riscatto sottoposto a scariche elettriche mentre era in una vasca
d'acqua. «Ci minacciavano con la stessa fine».
Persecuzione religiosa da parte dei gruppi armatiL'ascesa,
negli ultimi anni, di potenti gruppi armati ha aumentato i rischi
nei confronti degli stranieri, soprattutto di quelli di religione
cristiana.
Amnesty International ha parlato con persone che sono
state tenute sotto sequestro da tali potenze militari per molti
mesi. Amal, 21 anni, eritrea, ha raccontato il rapimento del
gruppo di 71 persone con cui viaggiava, a opera di un gruppo
ritenuto legato al Daesh, nei pressi di Bengasi. Era
il luglio 2015: «Hanno chiesto al trasportatore perché stesse
aiutando dei cristiani. Lui ha risposto che non sapeva che
fossimo cristiani e lo hanno lasciato andare. Poi ci hanno
separato: hanno preso i cristiani e hanno portato noi donne a
Tripoli, dove siamo state tenute per nove mesi in uno scantinato,
senza mai vedere la luce del sole». Quando alla fine le donne sono
state costrette a convertirsi, hanno subìto violenza sessuale.
Gli uomini infatti le consideravano le loro "mogli" e le
trattavano come schiave del sesso. In un altro caso risalente al
2015, Adam, un etiope di 28 anni che viveva a
Bengasi con la
moglie, è stato rapito dallo Stato islamico semplicemente
perché era di religione cristiana: «Mi hanno tenuto in prigione
per un mese e mezzo. Poi uno di loro si è sentito in colpa per
il fatto che avevo una famiglia e mi ha aiutato a imparare a
memoria il Corano in modo che mi avrebbero liberato».
L'appello Amnesty International: percorsi sicuri verso l'Europa «L'Unione europea
dovrebbe occuparsi meno di tenere migranti e rifugiati fuori
dalle sue frontiere e concentrarsi maggiormente sulla messa a
disposizione di percorsi legali e sicuri per coloro che sono
intrappolati in
Libia e cercano salvezza altrove», ha concluso
Magdalena Mughrabi.