sabato 27 febbraio 2016
Bazzari: «Quella misericordia che sa farsi azione». Il cappellano degli alpini, beato dal 2009, «non si è accontentato di assistere le persone ferite, mutilate, provate dal dolore e dalla malattia. Ha inventato il concetto di riabilitazione».
Misericordia, la lezione di don Gnocchi
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Don Gnocchi? «La misericordia che si fa azione». È un beato per l’Anno Santo, quello che ama ricordare monsignor Angelo Bazzari, presidente della Fondazione Don Gnocchi. Un beato (dal 2009) al quale molti, a cominciare dai suoi alpini, si rivolgono con fiducia, quegli alpini che in occasione della beatificazione erano sì soddisfatti, sorridevano, ma anche scuotevano il capo: «Per noi è già santo». Si tratta di pregare e pregare, sperando che regali qualche altra straordinarietà. Un miracolo. Sapendo bene che 'miracolosa' è stata sempre la capacità di Don Gnocchi di vivere avventurosamente alla frontiera, in guerra e in pace. Quali frontiere, monsignor Bazzari? La carità declinata dove dominava la morte, in Russia durante la guerra; e dove domina il dolore, allora fino a oggi, per alleviarlo. Per vincerlo. Un campione dell’assistenza. Con uno sguardo caritatevole. Ma Don Gnocchi segna uno scarto. Non si accontenta di 'assistere' le persone ferite, mutilate, provate dal dolore e dalla malattia. Fa di più. Lavora nel campo della riabilitazione. Nella persona da assistere non vede soltanto la vita sofferente da accompagnare, vede la vita che ci potrebbe essere. Quindi non solo assistenza ma anche recupero. Potremmo dire che ha 'inventato' il concetto di riabilitazione. Che cosa è cambiato rispetto a 60 anni fa nel modo di assistere e riabilitare? Il dolore e la sofferenza fisica e psichica sono delle costanti universali che accompagnano l’uomo sempre. La scienza interviene per arginarlo, con la ricerca e la tecnologia, che cambiano, e dove noi vogliamo essere all’avanguardia. Ciò che non muta, e credo non muterà mai, è la domanda: perché il dolore? Una semplice domanda o un mistero? Nel suo ultimo trattatello, Pedagogia del dolore innocente, Don Gnocchi parla del valore pedagogico della carità ponendosi proprio la domanda radicale: perché il dolore umano? Avanza più di una risposta, tra cui questa: il dolore esiste affinché siano visibili le opere di Dio e degli uomini, e il miracolo soprannaturale della carità. La Fondazione è complessa, ma volendo indicare una sola sua caratteristica di oggi, la più importante, quale potrebbe essere? La Fondazione ha un imperativo: coniugare la managerialità e la qualità dei servizi con l’umanizzazione, la prossimità e la condivisione. Da noi non c’è né ci deve essere spazio per l’approssimazione. Carità e competenza, misericordia e scienza, sempre ad altissimo livello. E l’ultimo libro, 'Ribelle per amore'? È forse l’ultimo anello che mancava per ricostruire in modo completo la figura di Don Gnocchi: la parte che recitò nella Resistenza. Tornato dalla Russia, mette in opera quanto ha promesso ai suoi alpini. Non è semplice e all’inizio fatica a trovare la sua strada. Ma essendo la carità il volano della sua passione, è 'inevitabile' per lui aiutare perseguitati politici ed ebrei. Lei è il terzo presidente della Fondazione. Qual è oggi l’eredità di Don Gnocchi? Premessa: noi siamo stati solo delle pallide imitazioni di Don Gnocchi, nani di fronte al gigante. Oggi ho dinanzi a me tre verbi: ricordare, perché fare memoria è decisivo per l’identità della Fondazione; vivere il presente con passione immutata; sperare, ossia sviluppare ogni chance offerta da scienza e tecnologia per tutta l’umanità che assistiamo, dalla neuropsichiatria infantile all’Alzheimer, alle cure palliative, agli stati vegetativi. Ho sempre in mente le ultime parole di Don Gnocchi: «Amis, ve raccomandi la mi baracca» . Allora la «baracca » era fatta di orfani di guerra, mutilatini, malati di poliomielite. Oggi è cresciuta ma è sempre la sua cara, amata «baracca» della misericordia che si fa azione.
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