sabato 25 aprile 2015
Accolta la proposta di Avvenire ("Uomo giusto, morto ingiustamente", di Marco Tarquinio). Gli amici: avvicinava l’altro con occhi di cristiano.
Il NYT: Obama sapeva del raid, non avvisò Renzi
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La città avrà una scuola intitolata a Giovanni- Giancarlo Lo Porto. Dopo aver letto dalle  colonne di Avvenire l’invito del direttore di affidare alla memoria dei più giovani il ricordo di un grande uomo che «ha insegnato a uomini come lui a respirare liberamente e degnamente» (LEGGI), il sindaco di Palermo Leoluca Orlando ha accolto con gioia la proposta. «L’amministrazione comunale, d’intesa con l’Ufficio scolastico regionale, si attiverà per individuare l’istituto di Palermo che porterà il nome del nostro concittadino, del cui operato andiamo fieri, tragicamente scomparso. Giovanni Lo Porto è un esempio di altruismo, impegno sociale e generosità verso il prossimo e lascia un grande vuoto che sarà difficile colmare». Una scuola a lui, che nella sua vita difficile e coraggiosa, ha dovuto lottare e lavorare per mantenersi negli studi, sin dalle superiori, poi all’Università a Londra e al master, con l’unico obiettivo di fare quello per cui si sentiva chiamato: incontrare gli altri, i più poveri, i più in difficoltà.  La madre e i fratelli del cooperante ucciso in Pakistan da un raid americano sono distrutti dal dolore. Gli amici e i parenti vanno e vengono da quell’appartamento al piano rialzato di via Pecori Giraldi allo Sperone, portano un fiore e tanto conforto, escono con un bagaglio di interrogativi e rabbia. Il fratello Nicola è giunto da Pistoia, mentre ha avuto un permesso speciale per tornare a casa anche un altro fratello, Marcello, in carcere. Quel quartiere di periferia è profondamente scosso.  Vogliono finalmente parlare alcuni amici, che con Giovanni, anzi Giancarlo come lo hanno sempre chiamato, hanno percorso un pezzo di vita e di entusiasmo. Hanno fatto di tutto per non far calare l’attenzione su quel sequestro misterioso e sulla necessità che Giancarlo tornasse libero, sano e salvo a casa. Assieme ad altre persone, hanno raccolto i messaggi di tutti i suoi amici, hanno registrato un video che è andato in onda su alcune reti nazionali lo scorso febbraio. Non immaginavano che, già allora, Giancarlo era morto. Sono profondamente addolorati Filippo Occhipinti e la moglie Marianna Di Rosa, palermitani, amici di Giancarlo, conosciuto una decina di anni fa su un sito internet per viaggiatori. Si trovano in Israele, sul Monte delle Beatitudini, accanto alla targa che ricorda il versetto evangelico 'Beati gli operatori di pace perché saranno chiamati figli di Dio', proprio quando cercano di raccontare al telefono chi era Giancarlo, «che si avvicinava all’altro con gli occhi del cristiano, che era capace di grande empatia, per questo veniva accolto e amato. Essere qui, proprio mentre apprendiamo della sua morte, mi sembra un segno davvero speciale», si emoziona  Marianna.  Veniva da un quartiere popolare Giancarlo, da una famiglia semplice, «aveva lasciato Palermo giovanissimo e per mantenersi negli studi al Nord e a Londra faceva il piastrellista» racconta Filippo Occhipinti, al quale, tra un ricordo di viaggio e una fotografia, Giancarlo aveva raccontato a sprazzi la sua vita. «In un quartiere in cui la gente parla a stento l’italiano, lui conosceva quattro-cinque lingue benissimo. Sono convinto che già da giovane avesse ben chiaro quale sarebbe stato il suo futuro, perché amava soprattutto viaggiare, stare tra la gente più povera – dice –. Era molto preparato, non si lanciava mai in avventure che non conosceva. Ricordo che ci siamo visti una settimana prima che partisse per il Pakistan. Aveva aspettato il visto per troppo tempo, un fatto che riteneva strano, ci era già stato. Ma alla fine il visto è arrivato e il destino beffardo ha voluto che venisse rapito poco dopo il suo arrivo. È stato un rapimento anomalo, anche perché è avvenuto in una zona non particolarmente a rischio. Ho sempre avuto il sospetto che è come se lo aspettassero».  A conoscerlo per prima è stata Marianna Di Rosa, nel 2005: «Quando ci incontrammo, decidemmo di andare in un locale, ma non volevano farlo entrare, perché indossava un cappellino di una ong. Lui si mise a parlare con i buttafuori, a dire che in tutto il mondo lo accettavano per quello che era e che a casa sua veniva respinto» «Restano la rabbia e la tristezza – conclude Filippo Occhipinti – di non sapere come ha vissuto questi ultimi tre anni. Sono sicuro che si sarà fatto amare anche dai sequestratori. Avrà saputo instaurare con loro un dialogo. Lui era fatto così».
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