venerdì 26 agosto 2016
​Jamahoko, Amadou, Jones e gli altri: in mezzo al dramma spunta l'impegno (e la restituzione) di chi è stato accolto. "Non si può restare a guardare".
Migranti al lavoro nelle tendopoli
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Difficile non notarli nella loro divisa arancio fluorescente. Pelle scura, guanti alle mani e cappellino in testa per proteggersi dal sole, canticchiano ritmate canzoni africane e accennano qualche passo di danza mentre lavorano. Vengono dalla Nigeria, dal Mali, dal Senegal, ma sono ormai talmente riconoscenti nei confronti del nostro Paese che li ha salvati da un barcone alla deriva, che ora si sentono parte della nostra nazione. E quindi, adesso che l’Italia intera dopo le lacrime della prima ora sta facendo arrivare nel cuore dello Stivale beni di prima necessità e volontari, anche loro vogliono fare la propria parte. «L’Italia mi ha accolto quando fuggivo dalle guerre in corso nel mio Paese – è il coro unanime –. Adesso non potevo che ricambiare il favore». Jamakoho Diarra, Amadou Tidiane e Jones Tigian sono solo tre dei venti richiedenti asilo gestiti dall’associazione Gus (Gruppo umana solidarietà) di Monteprandone, nell’Ascolano, che da ieri stanno dando una mano a ripulire le aree in cui sono state allestite le due tendopoli nel Comune di Arquata del Tronto. «Quando ho visto le immagini in tv l’altra notte mi sono sentito male – racconta in uno stentato italiano Jamakoho, da otto mesi in Italia – queste case distrutte mi ricordano il mio Paese, il Mali». Loro che sono scappati dai conflitti non possono non immedesimarsi nello scenario da bombardamento che si sono trovati davanti arrivando a Pescara del Tronto. Jones proviene invece dalla Nigeria, ha appena 21 anni ed è qui da poco più di un anno. «Noi vogliamo aiutare, siamo tristi per tutto questo dolore – aggiunge senza nemmeno alzare la testa dal suo lavoro di rasatura dell’erba –. Non pensate che non ci faccia male al cuore». Qui ci sono «famiglie distrutte – aggiunge questo ragazzone alto e riccio con collane al collo – tanto quanto sono le nostre. Non possiamo stare a guardare, dobbiamo darci da fare». Ha bisogno invece dell’amico traduttore Amadou, perché con lui si può parlare sono in francese. «Je suis très attristé – ripete – vous ne pouvez pas rester indifférent à toute cette déstruction» . È molto addolorato e continua a insistere che non si può rimanere indifferenti davanti a tutta questa distruzione, «nessun essere umano può». Così Amadou ha deciso, come gli altri, di rendersi utile, anche se sa che il suo è «solo un piccolo gesto di solidarietà». Proprio mentre il lavoro nel quadrante assegnato loro volge al termine, il trascinatore del gruppo Leon chiama tutti a raccolta: è l’ora della preghiera. Così si tolgono le scarpe e, rivolti verso la Mecca, si inginocchiano con il volto a terra. Tutti si fermano per un minuto a guardarli, in segno di rispetto, anche se nel campo da ultimare c’è ancora tanto da fare. Il rispetto per chi, da lontano e di un’altra religione, è venuto ad aiutare volontariamente si dimostra anche così. Con il silenzio, mentre pregano.
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