lunedì 3 ottobre 2016
​Terzo anniversario del tragico naufragio: tempi lunghi per dare un nome alle 368 vittime del naufragio.
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Esattamente tre anni fa, nella notte tra il 2 e 3 ottobre, un peschereccio partito dalla Libia e carico di migranti è naufragato al largo di Lampedusa. Furono 368 i morti accertati, una ventina di dispersi, 155 migranti salvati. Finora sono stati riconosciuti 30 corpi, tutti uomini eritrei. Tutti gli altri sono rimasti senza nome. Solo numeri sulle tombe dello sconfinato cimitero di Lampedusa. Oggi a Lampedusa e in tutta Italia è il giorno del ricordo di quelle persone morte in mare e di chi ogni giorno perde la vita attraversando il Mediterraneo per sfuggire alla guerra in cerca di pace, un nuovo lavoro o raggiungere i familiari che li hanno preceduti. Dallo scorso 21 marzo 2016, con la legge n. 45 la data del 3 ottobre è stata istituita come 'Giornata della Memoria e dell’Accoglienza', diventando così il giorno ufficiale in cui ricordare e riflettere sulla tragedia che si consuma quotidianamente nei nostri mari. «Una tragedia che, solo quest’anno, conta circa 3.500 vittime: donne, uomini e bambini in fuga da guerre, violenze e miseria, morti nel disperato tentativo di raggiungere l’Europa» precisa Tareke Brhane, presidente del Comitato Tre Ottobre, il comitato promosso da associazioni e ong che si è costituito l’indomani della tragedia del mare riunendo parenti e amici delle vittime. Attualmente in Italia ci sono circa mille migranti morti in mare ancora senza un nome. A snocciolare i numeri della tragedia infinita è il commissario straordinario del governo per le persone scomparse, Vittorio Piscitelli. Il prefetto ha iniziato a occuparsi dei migranti scomparsi al largo di Lampedusa con i terribili naufragi dell’ottobre 2013. Delle centinaia di vittime ancora senza volto di quella strage, ne sono state identificate finora 30. «Sugli altri 45 colloqui con i familiari di altrettante vittime la risposta purtroppo è stata negativa» informa Piscitelli. Mentre sono appena 20 quelle che hanno ricevuto un nome, morti nel naufragio del 18 aprile 2015, dove persero la vita 700 persone. In collaborazione con il laboratorio di antropologia e odontologia forense (Labanof) dell’Istituto di medicina legale della Statale di Milano, guidato dal medico legale Cristina Cattaneo e il coinvolgimento, a turno, di medici e scienziati di oltre 25 università Italiane, Piscitelli e Cattaneo cercano di dare un nome, incrociando i dati post-mortem con quelli ante-mortem, alle vittime dei naufragi.   L’Italia cerca non solo di salvare vite in mare, ma prova anche a dare anche un’identità a quei corpi senza vita. Uomini che spesso si sono imbarcati senza parenti, né amici o conoscenti. Ogni corpo recuperato in mare, avvolto in un telo grigio viene analizzato: dna, occhi, denti. Ma il vero problema è raggiungere i parenti delle vittime per incrociare i dati. «Stiamo lavorando con grande tenacia e parsimonia nel tentativo di dare l’identità anche all’ultimo scomparso – spiega il prefetto – però abbiamo bisogno di collaborazione per diffondere gli avvisi nei Paesi di provenienza dei migranti». L’obiettivo è infatti quello di raggiungere ogni piccolo villaggio, ogni gruppo familiare che ha un parente che ha attraversato il Mediterraneo. Solo da loro possono infatti arrivare quei preziosi dati antemortem che potranno dare un nome a chi adesso è solo un numero. Intanto da Lampedusa, il sindaco Giusi Nicolini e tutte le ong e le associazioni del Comitato 3 ottobre chiedono che non ci siano più morti nel Mediterraneo. «Celebrare una Giornata della memoria per quanti non ce l’hanno fatta vuol dire ricordare un numero impressionante di bambini, donne e uomini annegati nel Mediterraneo – ha detto padre Camillo Ripamonti del Centro Astalli –. Ricordare i morti vuole dire prima di tutto rispettare la dignità e i diritti dei vivi».
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