mercoledì 8 luglio 2015
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Ospedale San Giovanni Bosco a Torino, chirurgia ortopedica. Un giovane seduto in carrozzella parla con un uomo in piedi: il dialogo tra il chirurgo e un suo paziente. Solo che il chirurgo è quello seduto sulle quattro ruote. «Piacere», ci fa strada nel suo studio per raccontarci questa storia al contrario. Così al contrario che dovrebbe essere triste, e a tratti lo è pure, ma alla fine risulta una storia 'bella'. Era l’11 ottobre del 2011 e il dottor Marco Dolfin, 34 anni, quindici giorni prima rientrato dal viaggio di nozze e neoassunto in ospedale come chirurgo ortopedico, raggiungeva in moto il posto di lavoro. «È arrivato Dolfin», un infermiere annunciò in Pronto soccorso. «Meno male, perché abbiamo un caso urgente in arrivo, un politraumatizzato in moto», rispose il medico di turno. «Il politraumatizzato è lui, Dolfin»... La tragedia assume i toni della commedia, raccontati dal protagonista, che riesce a sorridere e far sorridere: «In ortopedia sono arrivato dalla parte sbagliata». Un frontale con una signorina distratta lo aveva ridotto molto male. Abituato a fare diagnosi, Dolfin elencò al collega le tante fratture che aveva riportato, ma ancora sentiva le gambe. Fu al risveglio dall’anestesia che queste sparirono per sempre, non perché il midollo fosse tranciato, ma per un ematoma che lo comprimeva... «Avviene proprio come nei film – racconta oggi – ti svegli, non le senti più, intanto ti rifanno nuovo con un mare di operazioni e l’unità spinale per un anno diventa la tua seconda casa. Il post-matrimonio uno se lo immagina scintillante, invece io e Samanta, che per fortuna è infermiera all’ospedale di Chieri, per mesi ci siamo visti nel fine settimana o nell’orario di visita. Io facevo fisioterapia dalle 8 alle 16, poi la sera lei entrava nella nostra casa vuota, io in una stanza d’ospedale piena di storie e di persone che ti aprono un mondo a parte». Già, perché un conto è avere a che fare con i malanni altrui, altro è provare sulla propria pelle. «Vissuto dall’interno è un universo sconosciuto, tutti i minuti della giornata ti trovi a doverti ricucire addosso una vita nuova e a volte getteresti la spugna. Per fortuna io e mia moglie, la persona più importante del mondo in questa battaglia, la gettavamo a tempi alternati, anche oggi quando uno cede l’altro trascina». Se il corpo andava ricostruito, la testa restava «dura come prima» e fu questo a far sì che il giovane chirurgo, nonostante il consiglio di molti, decise di continuare il suo lavoro. «Per prima cosa ho constatato che almeno braccia e mani funzionavano, così ho lavorato sodo sull’equilibrio del tronco e all’unità spinale di Torino ho incontrato Alessio Ariagno, tecnico di Officina Ortopedica Maria Adelaide, cui ho chiesto di inventarsi una carrozzina su misura per le mie esigenze...». La stessa carrozzina che oggi, vestita come lui di verde per essere sterile, lo porta in sala operatoria. È 'lei' a verticalizzarsi su suo comando per tirarlo in piedi, legato con cinghie, è sempre lei a tararsi su tutte le vie intermedie tra verticale e seduto secondo le esigenze operatorie, oppure a inclinarlo in avanti sul paziente, «alla Michael Jackson», scherza. Naturalmente le mani sono occupate e i guanti sterili, dunque per manovrare la snodatissima carrozzina il joystick, a forma di coppa, è mosso dal gomito. «Anche senza il contrappeso delle gambe riesco a sporgermi in avanti e a fare forza, come richiede la chirurgia ortopedica che noi medici chiamiamo 'macelleria' – scherza di nuovo –, dato che usiamo martelli, scalpelli, seghe. Diffidenti i miei pazienti? Lo ero più io, all’inizio, quanto ai colleghi ho prevenuto qualsiasi loro dubbio mettendoli davanti al fatto compiuto: ho ripreso a fare tutto, anche le protesi d’anca e il ginocchio, che erano l’incognita più grossa». Non contento, Dolfin macina record e medaglie anche in piscina, dove si allena due ore tutti i giorni e si prepara alle Olimpiadi di Rio 2016. Il medagliere suona ripetitivo: nei nazionali estivi di Bari 2014 oro 100 metri dorso, oro 50 metri farfalla, nei nazionali invernali di Napoli 2015 oro 100 metri rana, oro 200 metri misti... Non tutto è rose e fiori, sia chiaro, dai ritmi stravolti («oggi per essere al lavoro alle 8 devo alzarmi alle 5»), al rapporto con la carrozzina («uscire con gli amici comporta ogni volta sincerarsi che il locale sia accessibile e il bagno adatto ai disabili, e di fronte al gradino che non dovrebbe esserci salta fuori quel 'ti aiuto io' che odio...»). I momenti di sconforto ci sono ancora, insomma, «ognuno reagisce in modo diverso, c’è chi ringrazia l’incidente perché gli ha fatto scoprire la vita vera e chi è disperato per sempre. Io diciamo che non ringrazio quella signorina, ma le cose succedono e prima te le fai andare bene e meglio è». Tanto più che da nove mesi è entrata una grande gioia in famiglia, due gemellini che il papà riassume nel suo stile: «In casa il traffico di carrozzine ora è aumentato». E la fede? C’è? Aiuta? «C’era, prima. Ora è come il rapporto con l’amico del cuore con cui hai litigato: ce l’hai con lui, ma sai bene che tanto farai pace».
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