domenica 6 marzo 2016
​A oggi nel nostro paese vige il diveito di maternità surrogata ma chi lo fa all'estero viene poi autorizzato dai Tribunali.
La legge? Perdona i committenti
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Stop all’utero in affitto: ora che il consenso cresce, ora che il premier Matteo Renzi si è espresso in tal senso e il ministro della Salute Lorenzin ha annunciato una proposta di legge per trasformarlo in reato universale, gli occhi della politica si spostano sugli strumenti giuridici per decretarlo. La legge 40 punisce già in modo severo con «la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da 600.000 a un milione di euro» chiunque, «in qualsiasi forma, realizza, organizza o pubblicizza... la maternità surrogata » (articolo 12, comma 6), ma nulla prevede per i “richiedenti”, cioè i cosiddetti genitori d’intenzione. Così, in questi 12 anni, la norma è stata efficacissima nell’evitare che in Italia sorgessero cliniche o strutture sanitario-commerciali attive nel mercato della gestazione per altri, ma ben poco ha potuto fare nei confronti di chi l’utero è andato ad affittarlo all’estero, in un Paese che lo permette.  Cosa poi succede quando i “committenti” rientrano in patria, Avvenire l’ha evidenziato più volte: spessissimo, il certificato di nascita del bimbo viene trascritto. E altrettanto frequentemente – nonostante una sentenza di segno opposto pronunciata dalla Cassazione nel novembre 2014 – eventuali procedimenti penali a carico dei genitori d’intenzione si concludono con il loro proscioglimento. Dunque, con il concreto “abbuono” di azioni che le nostre leggi definiscono reato. È chiaro: per estirpare davvero la maternità surrogata serve una modifica normativa. Il nocciolo della questione l’aveva centrato il senatore “cattodem” Gianpiero Dalla Zuanna che, durante le accese discussioni parlamentari sul Ddl Cirinnà, aveva detto sì alla stepchild adoption purché peró la legge recepisse il suo emendamento teso a bandire la gestazione per altri. La proposta era quella di trasferire il divieto dalla legge 40 a quella sulle unioni civili, disciplinando la materia in modo molto più rigoroso. Il testo si apriva infatti estendendo i divieti del 2004 a chiunque praticasse la surrogazione per «accedere allo stato di padre o di madre»: ecco allora puniti i genitori committenti. Altra precisazione (tecnicamente ben formulata), l’operatività della norma anche qualora il reato fosse compiuto all’estero da un cittadino italiano: nelle intenzioni del senatore, niente più espatrio come escamotage per aggirare la legge italiana, come avvenuto per esempio col caso Vendola. Il testo affrontava poi il problema della trascrizione dei certificati di nascita “surrogati” ottenuti oltreconfine, insieme all’obbligo o meno dei funzionari consolari, in questi casi, di comunicare la notizia di reato: prassi ora disciplinate da una semplice – e in ogni momento revocabile – circolare della Farnesina. Nel frangente, Dalla Zuanna proponeva che il bimbo fosse subito messo in adozione dal Tribunale per i minori qualora non avesse nemmeno il 50% di legame biologico con i “genitori”, mentre negli altri casi auspicava che i giudici decidessero di volta in volta quale fosse il miglior interesse del piccolo. Fermo restando il fatto che l’eventuale trascrizione dell’atto dovesse menzionare solo il “vero” genitore. È evidente: se queste disposizioni trovassero casa nella legge 40 – la loro sede più idonea, in quanto rivolte a tutte le persone e coppie: single, gay ed etero – il problema dell’utero in affitto sarebbe risolto. In Italia, almeno. La Carta di Parigi, promossa dalla femminista francese Sylviane Agacinski e sottoscritta il 2 febbraio da studiose, intellettuali ed economiste di vari Paesi, vorrebbe ancora di più: bandire la maternità surrogata non dai singoli Stati, ma dal mondo intero. In questa direzione lo strumento giuridico potrebbe essere un protocollo aggiuntivo alla Cedaw, la Convenzione Onu sull’eliminazione di tutte le forme di schiavitù contro la donna: un testo che ben si presterebbe a quest’ulteriore specificazione, in quanto già ora intriso di principi incompatibili con l’utero in affitto. A partire dalle premesse, nelle quali dichiara «la rilevanza sociale della maternità e il ruolo di entrambi i genitori nella famiglia e nell’educazione dei figli, consapevoli che il ruolo della donna nella procreazione non deve essere causa di discriminazione».
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