sabato 3 ottobre 2015
Lampedusa, due anni dopo i 366 morti in mare i superstiti sono tornati sull'isola che li accolse. I coniugi Maggiore: «Per noi sono come figli» Claudio Monici
La casa di Lillo e Piera si è aperta ai migranti
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Alla parete del salotto, è appesa una gigantografia a colori della foto del matrimonio di Piera e Lillo. Proprio in questi giorni ricorrono i 26 anni da quello scatto felice: «Accidenti Lillo, ci siamo dimenticati del nostro anniversario », esclama Piera. «E già Piera, ma come è stato possibile?», si domanda Lillo. Man mano che un piccolo mondo, che parla lingue diverse, si accomoda attorno alla tavola, i coniugi Maggiore continuano a scusarsi con l’ospite venuto a far domande: «Siamo da poco rientrati da Napoli, dove nell’occasione dell’inaugurazione dell’anno scolastico, abbiamo fatto testimonianza della nostra esperienza di accoglienza familiare davanti alle autorità e al capo dello Stato Mattarella. Siamo sfiniti dal viaggio e la memoria se ne va un po’ di qua e un po’ là. Ma soprattutto siamo stati in trepida agitazione, come due bambini in attesa del loro regalo, perché, dopo un anno di lontananza, i nostri ragazzi stavano tornando a Lampedusa. E ogni volta è una rinnovata grande gioia, anche se l’occasione ricorda una terribile tragedia». Quella della famiglia Maggiore di Lampedusa - ma ce ne sono molte altre qui - Lillo, assistente amministrativo scolastico, Piera, comandante della polizia municipale, le due figlie Eleonora, 19, e Maria, 24, studentesse universitarie, è una storia dal gusto particolare, dolce come il miele, profumata come un fiore, bella come l’amore. Perché non può essere che così, quando decidi di spalancare la porta di casa a più di uno sconosciuto, il colore della pelle più scuro del tuo, che non parla come te, e che magari hai anche raccolto dalla strada, mentre piange straziato dal dolore per avere visto la morte in faccia e perduto gli amici più cari. «Per abbracciarlo come un figlio nuovo», ripete più volte Lillo. «Tutto ha avuto inizio quel maledetto 3 ottobre di due anni fa. Con la tragedia del naufragio di un barcone e la strage di 366 persone. Quando seduto su un marciapiede incontro Arek, eritreo, un sopravvissuto – racconta Lillo –. Piangeva, si disperava. Il suo migliore amico era morto e a lui non restava più nulla. Solo lacrime e vestiti logori di un viaggio iniziato molto tempo prima, vissuto in condizioni estreme, e già di per se drammatico ancora prima che finisse in dramma. In casa, in quei tragici giorni, accogliemmo altri sopravvissuti, ma poi, un giorno, dovettero riprendere il loro viaggio. Stoccolma. E non vi dico il dolore e le lacrime per quella separazione. Un giorno che, invece, doveva essere di gioia, perché, finalmente, Arek e gli altri avrebbero realizzato il loro sogno in sicurezza. Ma per noi Maggiore erano figli che partivano». Oggi cade il secondo anniversario di quel fatto luttuoso e una serie di iniziative, promosse dal “Comitato 3 ottobre”, organizzazione nata per far riconoscere in tutta Europa quella data come la “Giornata della memoria e dell’accoglienza”, intendono ricordare, insieme ad altre associazioni e Ong, non solo le 366 vittime del naufragio, molte donne e bambini, ma tutte le vittime dei viaggi migratori che hanno solcato il Mediterraneo. Anche una cerimonia interreligiosa sul sagrato del Santuario della Madonna di Porto salvo, con le parole e i gesti della fede, delle comunità cattolica, evangeliche, ortodosse, mormoni, islamiche, induiste, buddiste e sikh, pregheranno per ricordare e denunciare i mali del mondo. Quel giorno di due anni fa, tra l’altro, i cadaveri recuperati furono in totale 368, due corpi, mai riconosciuti, non appartenevano a quel barcone. Stavano già in fondo al mare. Vittime di chissà quale precedente tragico affondamento. Da dove viene la spinta a spalancare la propria porta di casa a uno sconosciuto, mai visto prima e di cui, magari, avere anche timore? «Dio ci ha dato la bella vocazione di aiutare chi ha bisogno, chi soffre. Un istinto che nasce dal cuore. Perché la loro povertà o le guerre che li spinge a partire sono il frutto della nostra ricchezza che li sfrutta», rispondono Piera e Lillo. A Lampedusa sono tornati anche un gruppo di quei superstiti, che ora vivono in nord Europa. Ci sono anche Bibi, Adal, Anbes e Henok, tutti eritrei, tutti ospitati in casa Maggiore. Assieme a Seydoun, senegalese, il loro “nuovo” figlio in affido temporaneo, soccorso in mare nel gennaio 2014 dalla missione “Mare nostrum”. «Far conoscere storie come questa della famiglia Maggiore, per noi è importante. Ne so qualcosa io che mi ricordo come fu forte l’emozione la prima volta che sono arrivato in Italia, quando ho incontrato la persona che per la prima volta, rotto la sua diffidenza verso uno straniero, mi ha detto: “Ciao, come stai?”», racconta Tarek Brhane, eritreo venuto dal mare, oggi il presidente del Comitato tre ottobre.
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