mercoledì 12 ottobre 2016
Nonostante il pregiudizio, sono oltre 60mila i lavoratori italiani in Svizzera, raddoppiati dal 2000. «Presto arriveranno a Berna e Zurigo», dice Giancarlo Bosisio dell'Organizzazione cristiano-sociale ticinese.
Italia-Svizzera, frontalieri raddoppiati (60mila)
COMMENTA E CONDIVIDI

Sono tanti ma impotenti. Quella dei frontalieri italiani in Canton Ticino è una condizione a due facce: stipendi più alti ma minori tutele. E, di sottofondo, l’accusa di «rubare il lavoro» agli svizzeri. Un pregiudizio dove ha trovato terreno fertile la destra ticinese, che ha promosso il referendum “Prima i nostri”. Una vittoria, quella del 25 settembre, che non sposta il problema ma, soprattutto, manca l’obiettivo di frenare il frontalierato.

Destinazione Berna

«La gente continuerà a venire e presto arriverà anche a Berna e Zurigo, i centri del potere politico ed economico del Paese. E allora tutta la Svizzera si sveglierà e si accorgerà dell’esistenza di questi lavoratori», dice Giancarlo Bosisio, primo responsabile dell’Ufficio frontalieri dell’Ocst, l’Organizzazione cristiano-sociale ticinese, che ha promosso il volume “Non avete pane a casa vostra?”, raccolta di esperienze e testimonianze di mezzo secolo di frontalierato italo-svizzero, curato da Guido Costa.

Flussi raddoppiati

Più che raddoppiati dal 2000, passando da circa 30mila e oltre 62mila, i frontalieri sono un «esercito impotente» per Alberto Gandolla, che dell’Ocst è responsabile dell’archivio storico. «Rispetto al passato – spiega – oggi i frontalieri hanno buone qualifiche e sul mercato del lavoro si mettono in concorrenza con gli svizzeri. Sono tanti, sono bravi ma sono comunque impotenti perché difficili da tutelare e i Cristiano sociali sono stati il primo sindacato che ha cercato di tutelarli».

Il problema? Dumping sociale

Il problema si chiama “dumping sociale” (la differenza salariale, a parità di mansioni, tra lavoratori svizzeri e frontalieri) e, secondo Gandolla, è provocato direttamente dalla mancanza di contratti collettivi soprattutto nelle professioni del terziario avanzato, dove i frontalieri sono in continuo e costante aumento. «È lo stesso datore di lavoro che fa dumping, approfittando della situazione», sintetizza Gandolla. «Il referendum ha evidenziato il problema del dumping», aggiunge Bosisio. «Fino al 2004 – ricostruisce – c’era la priorità per i lavoratori indigeni, che è stata tolta dopo l’accordo di libera circolazione con la Ue. L’“invasione” di personale italiano qualificato origina da qui e molti imprenditori ne hanno subito approfittato. Così, oggi, il nostro lavoro è andare a riconoscere dove non ci sono le tutele minime e non viene nemmeno applicato il Codice delle obbligazioni che stabilisce le regole di base. Da questo punto di vista – ribadisce Bosisio con amarezza – oggi si è tornati ai primordi del sindacato, con tanti lavoratori senza tutele né garanzie».

Vittime del pregiudizio

È questo il contesto comune a tanti frontalieri, vittime di un pregiudizio generato «dall’idea di complementarietà tra manodopera autoctona e immigrata», sottolinea Laura Zanfrini, sociologa dell’Università Cattolica e responsabile Settore economia e lavoro dell’Ismu. «È proprio l’aspettativa che gli immigrati possano candidarsi a ricoprire unicamente i posti di lavoro altrimenti vacanti – ricorda l’esperta – a produrre quei fenomeni di dumping sociale di cui migranti e frontalieri sono gli involontari protagonisti. È soltanto attraverso la promozione di un’effettiva uguaglianza di trattamento, nell’accesso alle opportunità lavorative e nei trattamenti contrattuali e retributivi, che è invece possibile contrastare i fenomeni di “concorrenza sleale” dei quali i lavoratori stranieri sono spesso accusati».

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: