domenica 24 luglio 2016
Fango e rifiuti. L'inferno di Moria
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Dalla rete metallica fanno capolino i volti di un gruppo di ragazzi pakistani. «No police, no police!» assicura Mohsin, dall’altra parte del filo spinato. L’invalicabile hotspot di Moria, il centro di detenzione più tristemente noto, sull’isola di Lesbo, si distende a perdita d’occhio, digradando lungo la collina. L’ingresso ai giornalisti è vietato, salvo formale autorizzazione. Ma gli agenti di guardia sono pochi, specie di sera. Non riescono a controllare l’enorme perimetro della tendopoli, giunta a contenere oltre 3mila persone. Mille in più del consentito. Pakistani, afghani, siriani, somali, eritrei, persino centramericani. Maschi adulti, per lo più. Ma ci sono ancora famiglie con bambini piccoli, donne incinta e minorenni non accompagnati. I meno fortunati. Gli altri sono già nei centri d’accoglienza di Kara Tepe e Pikpa. «Guarda come viviamo», dice Mohsin, indicando il suo giaciglio. Una tenda con il marchio dell’Unhcr. Al suolo, solo una coperta blu della Samaritan’s Purse separa le membra dal fango. Tutt’attorno, capannelli di bambini giocano tra liquami, frammenti di cibo e altri rifiuti. «Sono quattro mesi che aspettiamo in questo inferno.  Cosa dobbiamo fare?» Mohsin è un pakistano punjabi, viene da Lahore. Sul fiume Ravi ha trascorso i suoi 23 anni. Poi ha deciso di tentare la sorte e venire in Eu- ropa. Ha attraversato l’Iran e la Turchia. Infine l’Egeo, tra Dikili e Lesbo. La rotta del-l’Est. «Ci hanno registrati, appena arrivati a Moria – spiega –, poi si è bloccato tutto. Si parla di ricollocazioni in altri Paesi. Ma sembra che valgano solo per i siriani». Fino allo scorso 20 marzo, quello di Moria era un semplice centro temporaneo. Qui venivano registrate le migliaia di persone che quotidianamente giungevano a Lesbo. Nel giro di un paio di giorni raggiungevano il Pireo o il porto di Kavala, a bordo dei traghetti di linea. Poi è arrivato l’accordo in tema di immigrazione tra Unione europea e Turchia.  E l’hotspot di Moria è stato trasformato a tutti gli effetti in un centro di detenzione. Tra aprile e maggio circa 400 migranti sono stati rispediti sulle coste turche. Oggi l’operazione è sospesa. «Gli arrivi sono diminuiti drasticamente – osserva il portavoce dell’Unhcr a Lesbo, Boris Cheshirkov –, ma non sono mai terminati. Anzi, stanno riprendendo». Tra il 7 e il 15 luglio oltre 300 persone sono sbarcate a Lesbo. Una famiglia siriana, padre, madre e due bambini, non ce l’ha fatta. Sono annegati nel naufragio del 13 luglio. «Sono ancora decine le persone che tentano la traversata – nota Cheshirkov – quasi ogni giorno». Come John, 28 anni, eritreo di Asmara. Sull’isola è arrivato un mese fa, assieme ai suoi amici Denden e Habtom, dopo un lungo viaggio attraverso l’Etiopia, il Sudan, l’Egitto e Israele. «Mentre io approdavo qui, mia sorella Fiore annegava nel canale di Sicilia – racconta, asciugandosi gli occhi –. C’era anche lei tra i 400 del naufragio del 26 maggio. Aveva solo 16 anni». Denden tenta di rincuorarlo. Apre un foglio di carta dattiloscritto in greco. «Sono trascorsi 25 giorni da quando siamo arrivati a Moria – spiega –, ora possiamo muoverci liberamente sull’isola. Ma dobbiamo tornare qui ogni sera. Altrimenti ci arrestano e non ci danno più l’asilo». Una soluzione tampone, che tuttavia non cancella il regime di detenzione forzata, contro cui protestano varie organizzazioni internazionali. Da Medici senza frontiere a Save The Children, fino all’Unhcr. Tutte hanno abbandonato il centro, dopo lo scorso 20 marzo. Ma continuano a prestare assistenza ai migranti. Anche perché il quadro sanitario non fa che peggiorare ogni giorno. «Le condizioni igieniche sono fatiscenti – dice Philip, uno degli infermieri della Samaritan’s Purse, che operano nel centro – il campo è sommerso da spazzatura di ogni tipo. Anche il cibo è un problema. Talvolta capita che i pasti siano andati a male ». «Abbiamo sofferto tutti di diarrea e vomito – conferma Denden – c’è chi ha la scabbia, chi la febbre. Con il caldo, sbucano sempre più serpenti. Questo è un girone dell’inferno». La storica visita di Papa Francesco e del Patriarca ortodosso Bartolomeo, a fine aprile, sembra lontana anni luce. Le tensioni interetniche e contro la polizia non fanno che accumularsi. Lo scorso 31 maggio, una enorme sollevazione ha coinvolto migranti e agenti. Decine di tende sono andate in fiamme, costringendo per giorni molti residenti a dormire all’addiaccio. «Tra pakistani e afgani non corre buon sangue – dice Mahmer Muhammadu, che viene dalla provincia pakistana del Belucistan –, ci si azzuffa per un nulla. Gli agenti stanno a guardare. Non intervengono, neppure se di mezzo finiscono donne e bambini». Nel villaggio di Moria, abbarbicato su una collina affacciata sul centro, i nativi oramai non amano più né migranti, né giornalisti. «Siamo esasperati – tuona Panagiotis, uno dei pensionati seduti al caffè centrale del paese – molti qui hanno subito dei furti, sotto la minaccia di un coltello ». «C’è preoccupazione – conviene Stefanos, sessant’anni –, ho vissuto in Australia, sono stato un migrante anch’io. E non riesco a odiare queste persone. Non vogliono star qui, vogliono proseguire il loro viaggio. Che venga loro permesso».
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