sabato 21 maggio 2016
Per la Consulta «anche l'uso personale» va ricompreso tra le categorie pericolose.
Coltivare cannabis? È sempre un reato
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La coltivazione, anche per uso personale, di cannabis deve restare un reato e non può essere ricompresa tra quelle condotte punite solo con sanzione amministrativa. E questo perché presenta «un più accentuato disvalore» rispetto alla detenzione di droga, «trattandosi di 'comportamento idoneo ad accrescere il quantitativo di stupefacenti presenti sul territorio nazionale' e maggiormente pericoloso anche dell’importazione, 'non essendo valutabile a priori il quantitativo di droga potenzialmente ricavabile' ». Lo ha deciso la Corte costituzionale dichiarando non fondata la questione sollevata dalla Corte d’appello di Brescia che aveva posto dubbi sulla legittimità della norma, contenuta nel Testo unico sulle droghe, che non include tra le condotte punibili solo con sanzione amministrativa, finalizzate in via esclusiva all’uso personale, anche la coltivazione di piante di cannabis. Una sentenza, la numero 109 relatore il giudice Giuseppe Frigo, che oltre a confermare la posizione della Consulta su questo tema, contiene molte affermazioni particolarmente negative anche sul consumo. Si parla così di «disvalore» relativo «all’attività di assunzione di sostanze stupefacenti », di «pulsioni criminogene indotte dalla  tossicodipendenza», di un mercato che «mette in pericolo la salute pubblica, la sicurezza e l’ordine pubblico nonché il normale sviluppo delle giovani generazioni». La Consulta ricorda che l’attuale normativa è «volta a differenziare, sul piano del trattamento sanzionatorio, la posizione del consumatore della droga da quelle del produttore e del trafficante». Ma questa disciplina, aggiunge subito, «riflette chiaramente anche la preoccupazione di evitare che la strategia considerata si traduca in un fattore agevolativo della diffusione della droga tra la popolazione: fenomeno che è ritenuto meritevole di fermo contrasto a salvaguardia tanto della salute pubblica, 'sempre più compromessa da tale diffusione', quanto della sicurezza e dell’ordine pubblico». Proprio per questo «tra le condotte ammesse a fruire del trattamento di minor rigore non risulta inclusa la coltivazione non autorizzata di piante dalle quali possono estrarsi sostanze stupefacenti (quale la cannabis): attività che figura, per converso, in testa all’elenco dei comportamenti penalmente repressi dalla norma». E questo anche, aggiunge la Corte citando le sezione unite della Cassazione, «anche quando sia realizzata per destinazione del prodotto ad uso personale». Il motivo, spiega la Consulta, è che tale «condotta è idonea ad attentare al bene della salute dei singoli per il solo fatto di arricchire la provvista esistente di materia prima e quindi di creare potenzialmente più occasioni di spaccio di droga': e ciò tanto più a fronte della rilevata attitudine dell’attività produttiva ad incrementare in modo indefinito i quantitativi coltivabili». Inoltre, insistono i giudici costituzionali, la coltivazione può «dare luogo a un processo produttivo in grado di 'autoalimentarsi' e di espandersi, potenzialmente senza alcun limite predefinito tramite la riproduzione dei vegetali. Tale attitudine ad innescare un meccanismo di creazione di nuove disponibilità di droga, quantitativamente non predeterminate, rende non irragionevole la valutazione legislativa di pericolosità della condotta per la salute pubblica oltre che per la sicurezza pubblica e per l’ordine pubblico, quantomeno in rapporto all’attentato ad essi recato 'dalle pulsioni criminogene indotte dalla tossicodipendenza'».
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