giovedì 25 ottobre 2012
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Si può vivere senza avere paura? La maggior parte di noi risponderebbe di no. Potremmo fare una lunga lista delle nostre ragionevolissime paure. Paura per il lavoro che viene a mancare, e, anche, per un certo vento amaro e rabbioso che sentiamo soffiare su questo Paese. Paura per i nostri figli; e di mali che i medici non sanno curare. Di chi incrociamo, per strada, di notte. Paura comunque dell’ultimo atto, che inesorabilmente ci separerà da chi amiamo. Il Papa invece dice che è possibile vivere senza avere paura. Dice, lo ha detto ieri, che la fede in Dio è il fondamento per vivere senza paura. Nulla di nuovo, certo, per chi è cresciuto cristiano; ma colpisce come, nell’inizio dell’Anno della Fede, Benedetto XVI sembri tornare a dire il fondamento del cristianesimo, non dando nulla per scontato; ricominciando da capo, prendendo per mano i lontani, gli ignari – e forse, e soprattutto, gli abituati. Parla di noi il Papa, quando dice di una generazione educata a muoversi «solo nell’orizzonte delle cose, a credere solo in ciò che si vede e si tocca con le proprie mani». Parla con noi, quando propone «una scommessa di vita come un esodo, un uscire da se stessi, dalle proprie sicurezze e schemi mentali», per affidarsi a Dio. E meraviglia e commuove la mite sistematica audacia con cui quest’uomo anziano, il Novecento dietro le spalle con tutto il suo tragico peso, affronta a viso aperto la nostra umanità, rovesciandone la logica consueta: sfidando a pensare secondo Dio, e non secondo gli uomini. Affidandoci a Dio, dice, come un bambino nelle braccia della madre. Niente di nuovo, niente che il catechismo non insegni. Ma, immaginatevi che questo antico annuncio sia detto nel vagone di un metrò affollato, una qualsiasi mattina. Immaginate le facce. Quanti non troverebbero assurda e anacronistica questa idea di gettarsi in Dio come bambini? Noi, che ci vantiamo del nostro essere "adulti" – e quindi non ingenui, e quindi autonomi, saggi (o, meglio, rassegnati). E poi, potrebbe alzarsi e dire un viaggiatore, dov’è questo Dio? Giacché appunto noi siamo di quelli «abituati a credere solo in ciò che vede e tocca». È un salto, ciò di cui parla Benedetto, un buttarsi non fuori dalla ragione, ma dentro una ragione più grande: che, acquisiti e benedetti i più luminosi progressi della scienza, onestamente ammetta che tutto questo non basta. Che abbiamo addosso, scritte, domande insopprimibili; che, paradossale, solo in quell’"esodo" da noi possiamo vivere da uomini, davvero. Nel fiducioso affidarsi a un Dio, che in Cristo si pretende uomo fra noi, e vivo. Cosa direbbero su quel metrò? Molti dei sani, dei fortunati, dei ricchi, scuoterebbero superiori la testa; molti degli stranieri, o vecchi, o soli, almeno per un momento starebbero ad ascoltare. Tanti, fra noi, direbbero: grazie, sappiamo già tutto – e sono quelli con cui è più difficile parlare. Forse qualcuno invece, nel silenzio, avanzerebbe un’altra obiezione: come posso fidarmi di un Dio che permette ogni giorno tanto dolore e male? Il Papa ha detto ieri che la fede è «credere a un amore di Dio che non viene meno di fronte alla malvagità dell’uomo, di fronte al male e alla morte, ma è capace di trasformare ogni forma di schiavitù». Ma qui, noi del metrò dell’ora di punta facciamo fatica. Come fidarsi di questo Dio buono di fronte alla moltitudine che muore di fame e di guerra, oggi, in silenzio, in un giorno qualunque? Davanti allo scandalo del male l’audacia del salto in Dio si fa più sbalorditiva. Santità, vorremmo chiedere, ci spieghi meglio: come può Dio "trasformare" ogni schiavitù? Ci viene in mente Etty Hillesum, giovane ebrea di Amsterdam sedotta dall’Inno alla carità di Paolo, che dal treno per Auschwitz lasciò cadere un ultimo messaggio: «Siamo partiti cantando». Dalla più atroce oppressione, dal patibolo stesso, come liberata. Noi, non capiamo. Ma vedendo nelle parole delle udienze quel chinarsi di Benedetto e prendere per mano, quel ricominciare, paziente, come un maestro in una prima elementare, aspettiamo. Ci spieghi ancora, Santità, l’audacia e la bellezza di quel salto; ci spieghi ancora, con la sua mite tenacia, perché non dobbiamo aver paura.
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