giovedì 5 febbraio 2015
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Il vocabolario pare completamente impotente per descrivere le immagini della condanna a morte per mano dell’Is del pilota giordano: chiuso come un animale in gabbia e dato alle fiamme come un qualunque oggetto. Va ben oltre a ciò che noi chiamiamo barbarie, e il linguaggio non riesce a descrivere tale orrore.Le immagini hanno girato il mondo via internet – che non conosce le frontiere della morale – e mostrano ciò che all’inizio di questo secolo l’essere umano è ancora capace di commettere. Sembra un brutto corto circuito della storia, qualcosa che non si trova nemmeno fra la preistoria e le pagine più buie del Medioevo. Le immagini hanno suscitato il profondo disgusto anche da parte della comunità musulmana e delle autorità musulmane e l’imam dell’università di al-Azhar (università che forma il personale di culto del mondo musulmano sunnita) ha denunciato questo orribile atto.Analizzando il suo discorso di condanna, si rimane sorpresi da un certo tipo di logica e di atteggiamento dinnanzi all’argomentazione della condanna stessa. Appare così evidente che questo tipo di atteggiamento è significativo di un fatto: una parte dell’islam o della visione di ciò che è il diritto musulmano, in particolar modo il diritto penale, non governa assolutamente i meccanismi di produzione della violenza.Così la seconda sequenza del discorso di condanna pronunciata dall’imam di al-Azhar lascia un certo sgomento perché, utilizzando una specie di logica legata alla cultura dell’Antico Testamento, si pone verbalmente in modo simmetrico alla violenza perpetrata dall’Is. Ovviamente sono solo parole, ma le parole e il lessico possono nascondere mali oscuri, come dimostrò l’antropologo delle religioni e psichiatra René Girard nel suo suggestivo saggio "Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo". Questa violenza che lui definì come rivalità mimetica è presente purtroppo nella seconda parte del testo dell’imam. La rivalità mimetica in relazione alla violenza si autoalimenta dalla violenza stessa perché incapace di trovare un’alternativa alla violenza stessa. È un errore fondamentale perché, provenendo da un’autorità religiosa, si sarebbe dovuto adottare tutt’altro tipo di discorso, se pensiamo che ci sono stati gesti comuni alle diverse religioni come la preghiera per la pace del 1986 ad Assisi. E prima ancora l’esempio venuto dal Concilio Vaticano II della Chiesa cattolica. E, poi, numerosi incontri di pace dove accanto a uomini e donne di fedi diverse furono presenti delegazioni di musulmani. Cadere nell’immagine e nelle metafore dell’universo dell’«occhio per occhio» non ci aiuta per nulla. Egli avrebbe dovuto fare una cosa completamente diversa: aprire il discorso non sulla logica della punizione o della vendetta, bensì su idee che possano liberare l’uomo dalla sua malvagità, come ad esempio ribadire il fatto che esiste da tempo un’istituzione internazionale, la Corte penale internazionale dell’Aja, e che questi criminali dell’Is possono essere deferiti dinnanzi a questo tribunale che giudica i crimini di guerra più efferati, che siano individuali o collettivi. Questo sarebbe stato molto importante e innovativo, come pensiero e come azione, perché quel Tribunale non è soltanto il luogo della condanna, ma il luogo dove le idee più assurde sono smantellate in nome della ricerca della giustizia e della pace. Idee contro idee: è così che l’umanità potrà fare progressi, quando sarà capace di guardare in faccia se stessa, e ascoltare dinnanzi al mondo i fatti e le idee più terribili. Giudicarli. E intimare non la «ripetizione», ma il «mai più». Certo, un tribunale non cambierà da solo il mondo, ma almeno ci mette in guardia, ci dà un luogo a cui guardare con fiducia e ci aiuta a progredire lentamente, anche se solo di un millimetro alla volta.
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