lunedì 7 settembre 2015
COMMENTA E CONDIVIDI
​Le cronache dicono che all’ultimo "Gay Pride" di Roma gli organizzatori hanno dichiarato 250mila presenze. Con il sindaco della città in testa al corteo, i partecipanti hanno rilanciato richieste di principio e concrete rivendicazioni in nome di una popolazione che, come spesso si ripete, rappresenta ormai una componente importante della società italiana del nostro tempo. La forza di quei numeri e il potere dell’immagine mediatica procedono dunque uniti nell’accreditare le coppie dello stesso sesso come "fenomeno di massa" nell’Italia del XXI secolo e, in quanto tale, pienamente legittimato a ottenere il riconoscimento che spetta a un «nuovo modello familiare» che avrebbe conquistato ampio seguito entro la collettività. Proviamo tuttavia ad abbandonare per un attimo le immagini e i suoni della folla festante e colorata presentataci da quasi tutti i mezzi di comunicazione e chiediamoci quante siano realmente, oggi nel nostro Paese, le persone dello stesso sesso che vivono una condizione di coppia e dichiarano questa loro scelta. Ma come giungere a tale valutazione? Come misurare la frequenza con cui ricorre uno stile di vita che, quando non sbandierato in modo "politico" e quasi provocatorio, viene mantenuto, come in fondo è ovvio, nel privato?In realtà, il compito si rivela meno difficile del previsto. Ci viene infatti in soccorso il sistema delle fonti statistiche ufficiali, cioè l’Istat, con nientemeno che la sua "rilevazione principe": il Censimento della popolazione. Ossia quell’indagine che ogni dieci anni coinvolge l’intero Paese, l’ultima è del 2011, provvedendo alla conta del numero di residenti e indagando sulle loro principali caratteristiche familiari e socio-demografiche. Quello stesso Censimento che – è bene ricordarlo – ha determinato e ha autorevolmente certificato, attraverso le proprie risultanze, la «popolazione legale» di ogni Comune, con le relative conseguenze sia sul piano amministrativo che su quello della rappresentanza politica (le modalità di elezione del sindaco, così come la definizione del numero di consiglieri sono due esempi eloquenti).Forti dell’autorevolezza della fonte censuaria, proviamo dunque a verificare in che misura i cittadini - che per legge sono tenuti a rispondere in modo veritiero alle domande poste dal Censimento - hanno manifestato le loro relazioni in ambito familiare. Fissando particolare attenzione ai casi in cui, per l’appunto, è emersa la dichiarazione di convivenza in coppia tra persone dello stesso sesso.Il resoconto del Censimento 2011 – cui sembra giusto riconoscere autorevolezza anche su questo tema – mette in luce la presenza in Italia di 14 milioni di coppie, di cui 1,2 milioni non coniugate. Nell’ambito di queste ultime, quelle che si sono dichiarate dello stesso sesso sono, in tutto il Paese, appena 7.513. In particolare, sono 6.984 le coppie di persone dello stesso sesso senza figli e 529 quelle con figli di uno dei due partner. Di fatto, la rilevanza statistica del fenomeno è di 6 casi di coppia dello stesso sesso ogni mille coppie non coniugate ovvero, più in generale e indipendentemente dallo stato coniugale, di 5 casi ogni diecimila coppie. Naturalmente i dati si riferiscono solamente a partner dello stesso sesso che si sono dichiarati esplicitamente e, come cautamente avverte l’Istat, è possibile che molti abbiano preferito non farlo. Anche se verrebbe da chiedersi: perché mai? In fondo, ben più che partecipando a un corteo - con i soliti dati dubbi e ballerini sull’affluenza - quale migliore occasione ci sarebbe stata per dare ufficialità a un fenomeno "ormai radicato" nella società italiana? Sempre che sia questa la "verità vera". Perché se può anche essere credibile che, nel caso specifico, i dati censuari siano in parte sottostimati  è ancor più verosimile sospettare che, sul fronte opposto, siano esageratamente gonfiati i centinaia di migliaia di casi che vengono sbandierati con disinvoltura quando si afferma l’esistenza di un fenomeno di massa.Intendiamoci, non si tratta di mettere in discussione le libere scelte o condizionare a esse i fondamentali diritti delle persone, poche o tante che siano, bensì semplicemente di impiegare correttamente le informazioni disponibili al fine di conoscere e dare la giusta priorità alle istanze che provengono dai diversi segmenti della popolazione; magari anche tenendo conto della consistenza numerica dei gruppi che segnalano gli aspetti problematici per cui si richiede un intervento. Ad esempio, posto che, da un lato, si abbiano – basandoci doverosamente sulla certificazione di quella che è la fonte statistica per eccellenza – le circa 7mila coppie dello stesso sesso che richiedono attenzione perché vivono una  condizione di disagio e, dall’altro, ci siano i 164mila nuclei familiari che hanno quattro o più figli – tanto per richiamare situazioni di contesto in cui il disagio è allargato a una potenziale platea di oltre 700mila minori – e che si battono per suscitare l’interesse verso i "loro" problemi, quale dei due gruppi avrebbe i "i numeri" per reclamare in via prioritaria considerazione e interventi adeguati? Una questione che da troppi anni, anche su queste colonne di giornale, si continua a porre senza ottenere risposta da coloro che si sono alternati sugli scranni del Governo e che siedono in Parlamento. Mentre si ragiona di ridistribuzione dei pesi fiscali sui contribuenti italiani quella risposta è tempo di metterla all’ordine del giorno. Con priorità e urgenza, secondo giustizia.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: