venerdì 18 novembre 2011
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Nulla di nuovo, sinceramente. Ma molto di ri­voluzionario, di questi tempi. Un’agenda stret­tamente tecnica di cose da fare e al tempo stesso l’a­pertura di un orizzonte di futuro. Che tratteggia un’I­talia «riscattata», ricollocata al suo posto – al centro dell’Europa che ha contribuito a formare nei suoi i­deali e a costruire nelle sue strutture – finalmente libera di riprendere in mano il proprio destino do­po essersi guardata dentro con onestà. Il discorso programmatico del nuovo presidente del Consiglio non sorprende né emoziona più di tanto. Le concessioni alla retorica sono poche, le frasi a ef­fetto ancor meno. L’esposizione è quasi piatta, fin troppo facile definirla 'professorale'. Per certi ver­si, però, assume i tratti dell’esame di coscienza col­lettivo. Ecco 'i nostri mali', sembra dire Mario Mon­ti spiegando ciò che non va. Ecco 'l’atto di umiltà' per riscattarsi, con «un governo di impegno nazio­nale per affrontare in spirito costruttivo e unitario una situazione di seria emergenza». Perché il nodo è questo: siamo in una tempesta finanziaria che può travolgere la nostra economia e la nostra società, che può portarci a una bancarotta della quale a pa­gare il prezzo maggiore sarebbero i più deboli. Un destino che però non è segnato. Non ancora, al­meno, se si prova a rimettere in carreggiata il Pae­se. Per farlo le ricette sono note, in parte addirittu­ra già avviate dal precedente governo, anche se con poca convinzione e qualche confusione. Perciò di­ciamo che non c’è nulla di nuovo nel sentire men­zionare una riforma della previdenza. Molto è sta­to fatto, siamo meglio attrezzati dei tedeschi – ha ri­conosciuto lo stesso Monti –, ma occorre colmare le troppe disparità di trattamento tra le generazio­ni e le varie categorie, superare i privilegi. E così pu­re per l’annosa questione della flessibilità in entra­ta e in uscita dal lavoro. Il presidente del Consiglio ha fatto indiretto riferimento a progetti che sono in Parlamento da anni, dei quali si dibatte da tempo immemore senza il coraggio di decidere, senza l’o­nestà intellettuale – in un fronte come nell’altro – di mettere da parte le preclusioni ideologiche e di avviare una sperimentazione. Ai nuovi assunti, ai giovani è possibile proporre un nuovo patto: mag­giore stabilità del rapporto in cambio della rinun­cia alla inamovibilità. Maggiore protezione in caso di disoccupazione in cambio della falsa sicurezza di un 'posto fisso' conquistato dopo decenni di pre­cariato. Giovani il cui livello di istruzione va eleva­to e che, nelle parole del premier, dovranno rap­presentare il «fine» dell’azione di governo. Assieme alla valorizzazione del lavoro femminile e a politi­che a favore della natalità. Come a dire: una scom­messa sul nostro capitale umano. La ricetta che il presidente del Consiglio ha esposto ieri – con la re-introduzione dell’Ici sulla prima ca­sa, un’imposta patrimoniale che rimane per ora fra le opzioni (senza essere stata decisa) e una riforma fiscale che si propone di spostare il peso del prelie­vo dalla produzione al possesso e al consumo – rap­presenta al tempo stesso l’intervento immediato (e vedremo quanto amaro) contro l’emergenza e l’im­postazione di un progetto di lungo respiro per far tornare a crescere il Paese. Crescita economica, cer­to. Senza la quale non c’è futuro né sui mercati né in Europa. Ma crescita soprattutto sociale, se dav­vero Monti e la sua squadra di tecnici sapranno spo­sare sacrifici e sviluppo, rigore ed equità, cioè tro­vare quell’equilibrio che convince, coinvolge e ren­de chiaro a tutti che cos’è il bene comune. Nelle parole del presidente del Consiglio, ieri, c’era non solo «l’ossequioso» e «umile» rispetto della pri­mazìa della politica e delle sue istituzioni, ma so­prattutto la richiesta al Parlamento di lavorare in­sieme, ai partiti (e alle parti sociali) di impegnarsi in una leale collaborazione per servire il Paese. L’e­secutivo Monti, che ieri ha ricevuto un’ampia fidu­cia in Senato, è il governo dell’ossimoro. Nasce for­te della debolezza propria e del Paese. Tanto alter­nativo quanto dipendente dai partiti. Così neces­sario da poter essere spento in un soffio. Figlio di u­na tregua rivoluzionaria. In fondo, un governo di nessuno. Che la politica ha l’occasione di far di­ventare il governo di tutti. Per tutti. Politica alla mas­sima potenza.
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