sabato 31 dicembre 2011
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Le circostanze nelle quali sono morti padre Fausto Tentorio e il volontario laico Francesco Bazzani riassumono emblematicamente le due principali tipologie entro cui è possibile collocare le vicende degli operatori pastorali uccisi nell’arco del 2011. Se l’omicidio di Bazzani e della suora croata Lukrecija Mamic, con lui in Burundi, si inseriscono, infatti, in quel contesto di insicurezza endemica e di violenza diffusa che caratterizza molti degli scenari missionari in varie zone del mondo, l’uccisione di padre Tentorio – impegnato nella promozione umana integrale dei tribali nelle Filippine – sintetizza efficacemente il lavoro di tante persone che, in nome del Vangelo, sono implicate direttamente nei processi di riscatto sociale e culturale dei più deboli. Entrambe le due modalità di testimonianza possono essere racchiuse in un’espressione – "servire il popolo" – che provocatoriamente rubiamo al vocabolario maoista d’antan. Sì, perché decidere di rimanere – in Paesi quali Colombia, Brasile, Kenya, Sud Sudan, Burundi e Congo, piuttosto che in India o nelle Filippine – è, di per sé, una professione di fedeltà coraggiosa. Che mette in conto la possibilità di cadere in un’imboscata o di essere scambiati per una preda facoltosa solo perché si possiedono i pochi soldi che girano di solito in una missione. In contesti del genere, scegliere di non andarsene è già un segno di Vangelo, di condivisione dell’estrema precarietà in cui la stragrande maggioranza della gente vive. Detto ciò, scorrendo i nomi degli operatori pastorali uccisi nel corso del 2011, colpisce il numero significativo e la qualità delle storie di credenti "attivisti", uccisi a causa del loro impegno di frontiera. Penso a María Elizabeth Macías Castro, 39enne laica scalabriniana e giornalista, uccisa a Nuevo Laredo, in Messico, nei pressi della caldissima frontiera con gli Stati Uniti. Penso a suor Valsha John, religiosa indiana che ha pagato col sangue il suo lavoro di denuncia contro le compagnie minerarie che insidiavano i poveri tra i quali svolgeva la sua missione. La "mafia delle terre" ha stroncato anche la vita di Akram Masih, laico pachistano, reo di aver lanciato una campagna contro i ricchi proprietari terrieri che confiscano arbitrariamente i terreni ai contadini cristiani. Dal Pakistan arriva anche la storia di fede e coraggio che vede protagonista la diciottenne Mariah Manish: per il suo rifiuto al matrimonio forzato con un giovane musulmano, che l’avrebbe inevitabilmente portata alla conversione all’islam, ha pagato con la vita. Le due vicende pachistane appena ricordate non compaiono nell’elenco di Fides, ma appartengono a quella «nube di militi ignoti della grande causa di Dio» (la definizione è di Giovanni Paolo II), dei quali – come pure nota l’agenzia vaticana – «non si conoscerà mai il nome, ma che in ogni angolo del pianeta soffrono e pagano con la vita la loro fede in Cristo». Che approdino o meno alle prime pagine dei giornali, le storie di queste persone sono accomunate, al di là dell’estrema varietà degli scenari in cui si snodano le loro vicende, da un’unica, grande tensione: quell’ imitatio Christi che, per amore e non certo per masochismo o sete di gloria, mette nel conto il Golgota. Un’imitatio Christi cui ha dato magistralmente voce Shabaz Bhatti, l’ex ministro pachistano eliminato dai fondamentalisti islamici, nel suo indimenticabile testamento spirituale: «Voglio che la mia vita, il mio carattere, le mie azioni parlino per me e dicano che sto seguendo Gesù Cristo. Tale desiderio è così forte in me che mi considererei privilegiato qualora Gesù volesse accettare il sacrificio della mia vita. Voglio vivere per Cristo e per Lui voglio morire».
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