martedì 4 settembre 2012
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Dentro, il Duomo è gremito. Sul sagrato, una folla che non è riuscita a entrare; attorno, nella Milano già grigia del primo lunedì di settembre, crocchi di gente che si ferma ad ascoltare gli echi dei canti dalla cattedrale. Le campane hanno suonato, alle quattro, tocchi lenti, a ricordare la morte dell’arcivescovo Carlo Maria Martini. C’è la sua bara laggiù, davanti all’altare.Eppure, nelle parole in Duomo riecheggia come un’altra verità su questa morte, sfacciatamente contraddittoria rispetto a quella cui tacitamente in tanti ci siamo con gli anni e con l’abitudine arresi. Perché ovunque tu andassi a domandare, nei bar attorno, e nei treni del metrò qui sotto, tanti risponderebbero che la morte è solo sciagura, e angoscia, o – e addirittura peggio – il nulla. E invece, sotto alle navate del Duomo affollate di santi e martiri di pietra, di questa stessa morte si parla in tutt’altro modo. In morte dell’«uomo di Dio» Carlo Maria Martini – come semplicemente lo definisce Benedetto XVI nel suo splendido messaggio autografo – la morte si presenta in una prospettiva del tutto diversa; quel vuoto, che ci atterrisce e sgomenta, viene colmato da una speranza inaudita.«Tu sei ora nell’orizzonte della vita piena – dice il cardinale Scola dal pulpito – e noi non siamo qui per il tuo passato, ma per il tuo presente e per il nostro futuro». Colpisce, questa certezza proclamata oggi dentro a una grande città d’Occidente; perché è la stessa per cui sulla lapide di una catacomba romana dedicata a una fanciulla morta si legge semplicemente: «In vivis tu», tu sei fra i vivi.Lo strano, è che qui dentro e ancora più qui fuori, oltre a milleduecento sacerdoti, e alla Chiesa di Milano, c’è gente anche lontana, con cui quasi non oseresti discorrere di vita eterna o paradiso. Sono venuti oggi anche quei "lontani" che il cardinale Martini aveva a cuore, e a cui cercava di arrivare uscendo dal recinto di parole a volte troppo usurate per suonare vere, a chi del cristianesimo ha ereditato solo una confusa memoria. Come ha detto Scola, «davvero egli si struggeva di non perdere nessuno e nulla».E dunque in questa Milano settembrina si allarga fra parole e silenzi la domanda più grande: cos’è davvero quella linea dura di orizzonte che con la morte ci si para davanti? Scola ricorda Rilke, che scrisse: «Da’, o Signore, a ciascuno la sua morte. La morte che fiorì da quella vita in cui ciascuno amò, pensò, soffrì». E poi cita Adorno, che sarcasticamente definì quel verso di Rilke «miserevole inganno con cui si cerca di nascondere il fatto che gli uomini, ormai, crepano e basta».Vengono in mente le parole che lo stesso Martini pronunciò in una dei suoi ultimi incontri, la voce già mozzata dalla malattia: «Senza la morte non arriveremmo mai a fare un atto di piena fiducia in Dio. In ogni scelta impegnativa abbiamo sempre delle "uscite di sicurezza". Invece la morte ci obbliga a fidarci totalmente di Dio (..) A occhi chiusi, alla cieca mettendoci in tutto nelle sue mani».La morte, come un tuffo in Dio. Guardi la bara chiusa, già così irraggiungibile per noi l’uomo adagiato lì dentro. Possibile? Sì, lo sappiamo che la vita eterna per un cristiano è certezza; ma quanta distanza spesso corre fra ciò in cui vogliamo credere, e ciò che in realtà pensiamo. Lo conosceva bene Martini questo dualismo, lui che usava l’espressione: «Il non credente che è in me». Lui, arcivescovo di Milano, principe della Chiesa, biblista insigne, tutta la vita dedicata alla Parola. Però sapeva quanto duro è, nella fatica delle ore qualunque, mantenersi fedele alla speranza.E poi alla fine il Duomo si svuota, e nella sua penombra restano quasi solo santi e vergini, dall’alto, a vegliare. Riposerà, l’arcivescovo, sotto all’altare del crocifisso di san Carlo, come aveva chiesto. Qui aspetterà la Risurrezione dei morti. Risurrezione? Non oseresti parlarne davvero al barista della Galleria, al tassista che ti porta a casa. Questa speranza, chi ce l’ha spesso la tace, con una strana, quasi, vergogna. «Davvero egli si struggeva di non perdere nessuno e nulla»... Il lascito di Martini è sulle facce di gente, fuori, che ascolta, come esitante se restare o andare, e magari a stento ricorda il Padre nostro. Però commuovono – perché è come se aspettassero qualcosa.
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