martedì 1 settembre 2015
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​Un passaggio del discorso del presidente del Consiglio Matteo Renzi al Meeting di Rimini ha generato, più di altri, reazioni che presentano un certo interesse per l’interpretazione dell’attuale fase storica e di quella a essa immediatamente precedente. Secondo Renzi, il ventennio trascorso tra il crollo della Prima Repubblica e le elezioni del 2013 sarebbe stato caratterizzato da una "rissa permanente" fra berlusconismo e antiberlusconismo, che ha finito per paralizzare il Paese in un gioco di veti incrociati, bloccandolo e consegnandolo al declino. Oltretutto questa contrapposizione ha privato l’Europa del contributo italiano, con il risultato che l’Unione Europea di oggi ha un baricentro eccessivamente spostato a est e a nord.Queste parole, formulate con il linguaggio inevitabilmente semplificatorio di un comizio, hanno "provocato" alcuni esponenti della sinistra di matrice laica e post-comunista, sia nella sua variante politica (Massimo D’Alema) che in quella intellettuale (Piero Ignazi). Secondo quest’ultima opinione, Renzi avrebbe erroneamente messo sullo stesso piano Berlusconi e i suoi oppositori, tacendo i meriti di questi ultimi nel frenare le politiche del primo, e in particolare le sue leggi ad personam. Secondo Ignazi, nel ventennio berlusconiano la sinistra si sarebbe distinta per buone politiche, come le scelte economiche dei due governi Prodi, fra cui le liberalizzazioni decise da Bersani come ministro dello sviluppo economico del Prodi II. Dunque l’antiberlusconismo sarebbe una radice cui il Pd attuale dovrebbe richiamarsi, non potendo essere messo sullo stesso piano del leader politico cui esso si opponeva. Il tema in questione – va da sé – non ha interesse solo per i cultori della storia contemporanea, ma ha un rilievo diretto sulla costruzione della proposta politica del Pd di oggi e sul rapporto di continuità o rottura fra esso e il ventennio 1994-2013: se, infatti, si può guardare al centrosinistra di quegli anni con un "tutto va bene madama la Marchesa", ogni tentativo di andare oltre quegli schemi non ha giustificazione e può essere addirittura inteso come un tradimento.Un ragionamento su questo tema richiede alcune pur sommarie distinzioni. Nel 2015 non c’è bisogno di vantare pedigree antiberlusconiani per elaborare un giudizio negativo sul ventennio da poco conclusosi: i dati economici parlano di una lunga stagnazione, culminata nella recessione post-2010; il declino demografico si è manifestato e consolidato, incrinando la capacità del Paese di guardare al futuro e, paradossalmente, si affianca alla più alta disoccupazione giovanile della nostra storia; il Mezzogiorno è in piena desertificazione industriale; il senso civico e la morale pubblica sono drasticamente declinati; le stesse istituzioni portanti della società italiana, vale a dire la grande varietà dei corpi intermedi che ne ha costituito storicamente la ricchezza (dalla famiglia all’associazionismo), appaiono indebolite. Ritenere che di tutto ciò sia responsabile un singolo leader politico sarebbe puerile e falsante, e corrisponderebbe, in fondo, a una visione dell’onnipotenza della politica che è uno dei principali retaggi negativi (soprattutto a sinistra, ma non solo) del Novecento. Tuttavia se il berlusconismo ha una responsabilità principale, essa non è quella di essere la causa di questo declino, ma di averlo occultato, da un lato in nome di un approccio talora vuotamente ottimistico, dall’altro per aver concentrato (e indotto a concentrare) per vent’anni l’attenzione del Paese sulle vicende private del suo principale leader politico: dalle televisioni alle leggi ad personam, giù giù sino al caso Ruby (e dintorni). Nessuna delle grandi questioni nazionali sopra citate è stata davvero tematizzata, generando dibattiti politici veri ed elaborando politiche pubbliche – magari anche divisive – per farvi fronte.Davanti a tutto ciò, evidentemente, le responsabilità dei dirigenti del centrosinistra del ventennio berlusconiano sono importanti, ma non equivalenti a quelle di chi – come Berlusconi, appunto – in quegli anni, per ben due volte, ha avuto la possibilità di governare godendo di ampie maggioranze parlamentari (le più vaste della storia della Repubblica). Ma la responsabilità principale dei dirigenti antiberlusconiani è stata la sudditanza culturale, prima che politica, alle "armi di distrazione di massa" del berlusconismo, per cui essere di (centro)sinistra voleva dire anzitutto opporsi, puta caso, al legittimo impedimento o alle norme anti-rogatorie. Il tutto è culminato, poi, in una miscela di moralismo e di giustizialismo che è sfuggita di mano alla stessa dirigenza del Pd (e, prima, dei partiti che il Pd hanno generato), sfociando, assieme ad altre cause, nell’esplosione elettorale del Movimento 5 Stelle. Può apparire – e forse è – un po’ impietoso ribadirlo, ma – man mano che il ventennio 1994-2013 si allontana – gli oppositori del berlusconismo appaiono sempre più appiattiti su di esso. Far ripartire il Paese – missione che bisogna rendere possibile – richiede invece, oltre che un serio nuovo inizio politico e programmatico sul fronte di centrodestra , una svolta anche rispetto a quella tradizione di centrosinistra, non solo rispetto a colui cui essa si è opposta.Ciò ha anche alcune conseguenze di "delimitazione della maggioranza", come si sarebbe detto un tempo. Il centrosinistra del ventennio aveva una straordinaria tendenza all’autolesionismo: come dimenticare il radicalismo infantile di Rifondazione Comunista, che il 9 ottobre 1998 portò alla caduta del I governo Prodi, nell’unico momento in cui il centrosinistra appariva maggioritario nel Paese? E come dimenticare il radicalismo verboso dei Pecoraro Scanio et similia (a cominciare, di nuovo, dai rifondazionisti)? Ripensare a quegli anni vuol dire anche prendere atto di questi elementi di fragilità politica e costruire un bipolarismo non egemonizzato dalle estreme, ovviamente sapendo che i limiti da superare sono molto più di contenuto che di schieramento, di policy che di politics.
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