sabato 29 dicembre 2012
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Un pomeriggio di fine di­cembre in un bar dimesso, sulla circonvallazione di u­na città emiliana. Una fila di slot machines è occupata da quattro clienti. Gli ingranaggi girano ru­morosi, a tratti si sente il rotolare di qualche moneta vinta. Poca ro­ba. Subito sugli schermi tornano a scorrere velocemente i simboli che dovrebbero allinearsi uguali, e non si allineano mai. A un tavolo quat­tro vecchi sono intenti a una si­lenziosa partita a carte. Una di lo­ro è una donna, il viso segnato dal­le rughe è troppo truccato. Sembra una maschera drammatica, col suo sguardo intento solo a discer­nere il fante o il re da giocare. Ac­canto, due donne anziane, vestite modestamente, bevono qualcosa di forte - lo senti dall’odore. Ordinano un altro bicchiere. Tacciono, e guar­dano fuori, verso l’imbrunire. A un tratto una interrompe il silenzio: 'Fra pochi giorni è Capodanno', dice. E dopo un attimo: 'Devo ricordarmi, il 31 sera, di mettere le lenzuola nuo­ve. M’han detto che porta fortuna»...
Nella solitudine del bar di periferia la frase stringe il cuore. Quale for­tuna aspetta, signora? vorresti chiedere alla sconosciuta. Ma quasi con te­nerezza; per il cocciuto, ostinato bisogno di sperare che rimane anche in chi, umana­mente parlando, sembrerebbe ormai es­serne escluso; dentro questo locale un po’ triste, dove la massima fortuna sta, forse, nascosta dietro un gratta e vinci.
Ma poi anche fuori di qui, dove la vita scor­re più lieta e più giovane, dove abita la spe­ranza della gente, in questo ultimo decli­nare del 2012 che finisce e si sporge sul­l’anno nuovo, intonso? Dovunque ti volti è un offrirsi di oroscopi, di stelle lette, si as­sicura, e decifrate. Sembra di sentire l’eco della voce del venditore di almanacchi di Leopardi: «Almanacchi, almanacchi, luna­ri! Almanacchi nuovi!». E molti di noi sono come quel cliente pensoso che chiede al­l’ambulante se sarà migliore davvero, l’an­no nuovo, di quello passato, e osserva che comunque nessuno, nemmeno un princi­pe, accetterebbe di rifare l’anno che ha a­vuto, conoscendolo già, tale e quale. E quin­di conclude: «Quella vita ch’è una cosa bel­la, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la futura». Parole che rendono bene la con­fusa, cieca, cocciuta speranza che circola fra gli uomini, una volta ancora, all’ap­prossimarsi della cesura del 31 dicembre.
E fra noi che ci diciamo cristiani invece, co­s’è la speranza, e perché, pur portando ap­parentemente un nome simile, non ha nul­la della imperscrutabilità, della volubilità capricciosa del Caso, signore delle lotterie e degli oroscopi di fine anno?
La nostra speranza è Cristo, e non ha nul­la di irragionevole, non è un favore di dèi pagani da propiziarsi con riti superstizio­si. La speranza nostra è «attender certo del­la gloria futura». È la certezza, oggi, di Cri­sto, signore del tempo e della storia, che conosce ogni uomo; e nel cui nome non e­siste il Caso, ma solo un destino misterio­so, ma buono. La speranza nostra emana dal respiro della fede, fede che, scrive Be­nedetto XVI nella “Spe salvi”, «Attira den­tro il presente il futuro, così che quest’ulti­mo non è più il puro, “non-ancora”. Il fatto che questo futuro esista, cambia il presen­te ». Volendo dirlo ai nostri figli, è in fondo sem­plice: immaginate di camminare per un sentiero impervio, stanchi, e mentre si fa buio. Che differenza passa tra il non sape­re dove si sta andando, o invece conoscere con certezza dove, e da chi si va, e che c’è una grande casa in cui siamo aspettati da sempre, uno per uno? La nostra speranza non ha nulla di aleatorio, nulla che stia in bilico sul salto del tempo che è il morire di un anno. Ma quanto, attorno, è larga la di­menticanza, e il ripiegare su povere fasul­le speranze. «Le lenzuola nuove, m’han det­to che portano fortuna», detto da una don­na di ottant’anni: che solitudine, e che ur­genza di dire il nome di Cristo; e prima an­cora, di un abbraccio - ma forse è proprio questo, il primo annuncio.
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