domenica 17 giugno 2012
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C’è un giudice in Inghilterra. Un giudice che di fronte all’esistenza travagliata di una donna anoressica di 32 anni che vuole lasciarsi morire di fame, ha deciso per l’alimentazione forzata, nella sentenza che ha definito «la più difficile della mia vita». Quella della giovane inglese è una vita intrisa di dolore, e costellata di sconfitte. Abusata sessualmente all’insaputa dei suoi genitori dai quattro agli undici anni, a tredici è entrata nel tunnel dei disturbi alimentari e dell’abuso di alcolici. Ha cercato di uscirne, studiando per diventare medico, ma ha interrotto l’università per una delusione d’amore: dal 2006 è ricaduta nei problemi di sempre – alcool e bulimia/anoressia – e da un anno rifiuta i cibi solidi. Considera la propria esistenza un «puro tormento» e vuole solo morire. I suoi genitori si sono arresi e vorrebbero accontentarla, e veder finire tutta questa pena. Da quanto riportato dai media, la donna sembra del tutto consapevole e pare abbia formulato la richiesta di morte in piena coscienza, determinata ad andare fino in fondo. E d’altra parte le condizioni fisiche in cui si trova sono così critiche che anche alimentata forzatamente, e sottoposta a terapie di supporto piuttosto onerose, le sue probabilità di sopravvivenza non superano il 20%. La donna, insomma, ha smesso volontariamente di nutrirsi, e rifiuta consapevolmente qualsiasi cura. Bisognerebbe ragionare sulla validità o meno del consenso informato da parte di una persona tanto provata dal proprio vissuto, e con una così grande sofferenza psicologica: i disturbi dell’alimentazione e di dipendenza dall’alcool della donna potrebbero essere considerati, a ragione, talmente pesanti da mettere in dubbio che la rinuncia al cibo e a qualsiasi terapia sia veramente libera e consapevole come dichiarato dal suo avvocato. Sicuramente questi aspetti sono stati esaminati, nella sentenza con cui il giudice Peter Jackson ha disposto l’alimentazione forzata della donna. Ma le sue motivazioni primarie si richiamano alle fondamenta del diritto e all’esperienza di vita di ciascuno di noi, con una franchezza spiazzante: «Viviamo una volta sola. Veniamo al mondo una sola volta e una sola volta moriamo. E quella tra la vita è la morte è la più grande differenza che conosciamo. Un giorno questa donna potrebbe scoprire di essere una persona speciale, la cui vita vale la pena di essere vissuta».Sono le motivazioni profonde per cui, se sappiamo che qualcuno vuole farla finita, anche se è un perfetto sconosciuto, incontrato per caso, istintivamente tentiamo di salvarlo, senza preoccuparci di chiedergli il perché del suo gesto e le sue convinzioni personali sul senso della vita e della morte. E facciamo di tutto per dissuaderlo, e cerchiamo di far sì che non ci riprovi più. Perché ognuno di noi ha assaporato la bellezza del vivere, ha vissuto intensamente dei rapporti affettivi: ciascuno di noi sa che la propria vita è il bene più prezioso che ha, ed è un bene unico, che una volta perduto nessuno potrà più restituire. Ed è per questo che il diritto alla vita è il primo fra i diritti, senza il quale non ce ne sarebbero altri. Spesso la richiesta di morire arriva perché non si sopporta di perdere qualcosa di bello e di vero di cui si è già fatto esperienza: una madre, un figlio, un compagno, ma anche un’esistenza ricca di tante cose spazzata via da una malattia, da una disabilità improvvisa. E allora, ci si convince che l’unica possibilità di felicità è passata, e non tornerà più, e rimangono solo i ricordi che diventano ogni giorno più grevi e insopportabili. Si pensa che non ci potrà mai essere un’altra opportunità, non si riesce ad ammettere la categoria dell’imprevisto che può cambiare la vita. Quando muore la speranza, arriva il desiderio di morire. Questa ragazza, non a caso, a un certo punto della sua travagliata esistenza era arrivata addirittura a iniziare gli studi di medicina, forse per provare ad aiutare persone che avevano sofferto come lei. Aveva ritrovato un senso alla propria esistenza, quindi, ma l’ennesima prova l’ha di nuovo messa a tappeto. Un giudice coraggioso vuole darle l’opportunità di ritentare ancora: non sappiamo se sia credente o meno, ma sicuramente la sua personale esperienza di vita è tale da fargli ritenere che ogni vita è speciale e vale la pena viverla. Un giudice che, per la propria certezza del diritto, non si è arrogato quello di decidere della morte altrui.
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