venerdì 20 febbraio 2015
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Uno degli aspetti positivi del documento "La buona scuola" (il pacchetto di provvedimenti voluti dal premier Matteo Renzi in materia di istruzione) – accanto ad altri meno entusiasmanti, che non abbiamo mancato di segnalare su queste colonne – è senza dubbio la volontà di provvedere in maniera ordinata alla questione del reclutamento dei futuri docenti. Questo per evitare di trovarsi di fronte, come è accaduto sino ad oggi, a percorsi diversi (concorsi ordinari, concorsi riservati, corsi abilitanti ecc.), ciascuno dei quali ha finito con il dar vita a fitte graduatorie di precari, molto difficili da smaltire tramite assunzione in ruolo.L’ipotesi del Governo è che al triennio della laurea di base segua un biennio specialistico già «improntato alla didattica», basato, oltre che sulle discipline caratterizzanti lo specifico indirizzo, su corsi di didattica e pedagogia, e in generale «di materie – leggiamo nel documento – mirate sul lavoro di formazione e crescita dei ragazzi». Dopo di che, chi avrà frequentato con successo tale biennio "quasi-abilitante", potrà accedere – per conseguire l’abilitazione vera e propria – a un semestre di tirocinio a scuola, seguito da un docente mentor (o, se si preferisce, tutor).Su questa proposta si è accesa nelle ultime settimane una vivace discussione (si veda, ad esempio, il botta e risposta tra Eugenio Mazzarella e Giunio Luzzatto negli ultimi due numeri della "Domenica del Sole"). Illustri e autorevoli esperti del settore si fronteggiano soprattutto su una questione: siamo sicuri che la formazione prettamente disciplinare possa ridursi al solo triennio della laurea di primo livello? Non c’è il rischio che se la laurea specialistica si caratterizza significativamente in senso psico-pedagogico ed educativo, si impoverisca il suo spessore scientifico? Sono dubbi tutt’altro che illegittimi, come chi sa chi lavora nel campo della formazione dei docenti.Insegno da diversi anni Didattica dell’italiano all’Università, prima alle Ssis (Scuole di specializzazione all’insegnamento secondario), ora ai Tfa (Tirocini formativi attivi) e ai Pas (Percorsi abilitanti speciali): scusate questa giungla di acronimi, ma sono quelli con cui hanno avuto e hanno tuttora a che fare gli aspiranti docenti. Ebbene, l’impressione mia e dei miei colleghi è che il problema principale sia sempre più, per i futuri professori di scuola, quello di un’adeguata conoscenza della loro materia. Se a un test di letteratura italiana (parlo di esperienze reali) una percentuale non trascurabile di dottori in possesso di laurea magistrale, iscritti ai Pas, non riescono a ordinare cronologicamente una serie di dieci nomi di autori massimi del nostro canone (anche scolastico) – del livello, per farmi capire, di Boccaccio, Tasso o Leopardi – o non sanno indicare il genere letterario cui appartiene il Canzoniere di Petrarca o l’Orlando furioso di Ariosto o, ancora, non sono in grado di dare una definizione precisa della struttura di un sonetto, evidentemente c’è qualcosa che non ha funzionato a monte nel loro percorso formativo.Comprendo quindi e condivido io stesso i dubbi in merito al futuro biennio di specializzazione, così come prospettato da "La buona scuola". Attenzione: assicuriamoci che chi va in cattedra sappia ciò che deve insegnare, prima ancora di come debba insegnarlo.
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