venerdì 13 luglio 2012
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​La domanda è brutale, ma a dettarla sono i dati sciorinati ieri dall’Istat. A qualcuno interessa salvare il soldato-matrimonio? Eccoli, i numeri nella loro crudezza: 88mila separazioni nel 2010, con un tasso di crescita di un paio di punti percentuali all’anno dal 2008. Si lasciano le coppie giovani (su 100 separazioni quasi 18 hanno riguardato sposi con meno di 5 anni di matrimonio), ma anche quelle di lungo corso (dal 1995 a oggi sono più che raddoppiate le separazioni dopo le nozze d’argento). Di fronte a questo sfacelo – non c’è altro modo di chiamarlo, a meno di voler negare che il fallimento di un matrimonio costa sempre lacrime e dolore – c’è da chiedersi, dunque, se c’è qualcuno a cui interessa invertire la tendenza.A tanti, cattolici in testa, interessa. C’è un fine più alto, nel caso di matrimoni celebrati davanti all’altare, ed è quello che «nessuno separi ciò che Dio ha unito». Ma c’è una preoccupazione che coinvolge tutti, anche chi non crede. Una preoccupazione genuinamente sociale, dettata dalla frequentazione quotidiana di uomini e donne e da una saggezza antica, eppure molto più attuale di tanta modernissima insipienza: un’unione stabile, che funziona, che porta con sé la chiarezza di diritti e doveri reciproci fissati per legge, che sa superare le inevitabili difficoltà, che non si arrende ma al contrario è impegnata per un progetto in cui aveva fortemente creduto, è un bene per la società intera. Per i figli, per ciascuno dei due coniugi, ma in ultima analisi per tutti. Alla comunità cristiana sta a cuore, e non è un interesse di facciata: da alcune grandi associazioni di sostegno alla coppia ai Gruppi famiglia presenti in quasi tutte le parrocchie, fino alle migliaia di corsi di preparazione alle nozze, l’impegno per dare strumenti "di resistenza" agli sposi è costante, assiduo, capillare.Ma a chi altro interessa? C’è una certa cultura che osserva i dati dell’Istat e li commenta un po’ con un’alzata di spalle, un po’, addirittura, con soddisfazione. Tutto scivola via: la fragilità degli uomini e delle donne che non riescono a trovare la forza, il coraggio, la determinazione di affrontare un problema, anche serio, per restare sul sentiero di un progetto originario di vita in comune. La sofferenza di migliaia di bambini che continueranno ad avere – come deve essere – un padre e una madre, ma non la loro famiglia.Non dovrebbe essere anche una preoccupazione "laica", quella di aiutare tante coppie a sanare le ferite, rafforzando quindi una stabilità che appartiene prima di tutto agli sposi e alla famiglia ma che diventa ricchezza per la società? Alcuni Comuni l’hanno capito e investono persino qualche risorsa in "corsi di preparazione al matrimonio civile" (ultimi arrivati, Tolmezzo ad aprile e Como a maggio). Alla società non servono scorciatoie come i registri delle coppie di fatto o il divorzio breve: servirebbero, invece, strumenti condivisi e generali, a partire da un incoraggiamento economico e fiscale reale alla famiglia o almeno dalla rimozione dei tanti disincentivi innescati anno dopo anno (anche questo conta, ai fini della stabilità...). Servono misure di accompagnamento sia nella quotidianità sia soprattutto nei momenti di difficoltà della relazione, attivando le risorse dei consultori familiari, dei mediatori, perfino degli studi di avvocati che spesso sono solo un triste approdo di fallimenti... Lasciati a loro stessi, troppi sposi si arrendono. E finiscono nelle statistiche dell’Istat. A chi interessano?
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