venerdì 9 ottobre 2015
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Dove non sono arrivati i tentacoli di "mafia capitale" sono riuscite le ricevute fiscali di alcuni ristoranti. È una pietra d’inciampo tutto sommato piccola, almeno dal punto di vista materiale, quella che ha fatto scivolare via dal Campidoglio Ignazio Marino. La più volte sbandierata diversità del "sindaco marziano" non ha retto all’attacco delle opposizioni sul fronte dei rimborsi spese. Lui continua a negare di aver mascherato convivi privati da cene di rappresentanza, ma la raffica di smentite incassate in poche ore è stata micidiale sotto il profilo dell’immagine. Si è così chiusa in maniera piuttosto surreale – con il sindaco arroccato nel suo ufficio con splendida vista sui Fori Imperiali e convinto solo in serata ad arrendersi, malvolentieri, dalla sua stessa maggioranza– una parentesi che non sembra destinata a lasciare un segno indelebile nella storia quasi trimillenaria di questa città, se non per aver coinciso con lo scoperchiamento di vere cloache del malaffare e della malamministrazione. Poco amato dai romani, il chirurgo-politico. E poco amato perfino dal suo partito, il Pd. Eppure era cominciata con una vittoria larghissima alle elezioni comunali del 2013: quasi il 64% dei consensi al ballottaggio, contro il 36% dell’uscente Gianni Alemanno, poi investito in pieno dalle indagini giudiziarie sul "mondo di mezzo". Sembrano di ieri le foto di Marino trionfante a cavallo della sua bici in compagnia di agenti-ciclisti della Polizia municipale, impegnato a “registrare” dimostrativamente matrimoni gay e a tentare persino di salire sulla “papamobile” di Francesco. Istantanee radiose ben presto sbiadite dai fumi del traffico impazzito in seguito ai lavori per la pedonalizzazione dei Fori e dalle multe per la sua Panda rossa in divieto di sosta, per di più nella zona a traffico limitato senza permesso. Né è riuscito a sfruttare in suo favore, il sindaco ora dimissionario suo malgrado, l’effetto-paradosso scaturito proprio dall’esplosione di "mafia capitale": più tutto intorno crollava il mondo della politica cittadina, compresi pezzi della sua prima giunta, più si dimettevano uomini e donne politicamente a lui vicini (a torto o a ragione, questo lo decideranno i giudici), più lui sembrava il "marziano" nel quale forse si poteva sperare , perché distante dagli intrecci tra sporchi affari e bassa politica, non incline ai compromessi in odore di corruzione. Alcuni, magari pochi, avevano sperato nella possibilità di una ripresa, in un riscatto morale della Capitale d’Italia, in un’emersione dal marcio, in una ritrovata qualità della vita grazie a servizi di pulizia e di polizia cittadina finalmente non più motivo di quotidiano scandalo. Ma il nuovo sprint è durato il tempo di un lampo di quei temporali che, periodicamente, allagano la metropolitana e i sottopassaggi. Non sono serviti i rimpasti di giunta né i ricorrenti annunci di svolta. Roma e i romani sono ripiombati in un grigiore livido di esasperazione e gonfio di rassegnazione. L’Italia ha continuato a sgranare gli occhi. Più volte, nel corso di questo infausto biennio, Marino ha promesso «cambiamenti epocali». Addirittura ieri, annunciando le sue singolari dimissioni "revocabili", ha assicurato di averli «impostati». Ma ogni volta c’era qualcosa che frenava: in origine le falle ereditate dalla precedente amministrazione, poi la corruzione scoperta dalla magistratura, infine le pressioni politico-partitiche. Mai un’assunzione di responsabilità diretta. Nemmeno ieri, all’atto del congedo. A ogni annuncio di decollo, però, si faceva più netta l’impressione di essere a bordo di un aereo in picchiata costante. Adesso, subito, è arrivata l’ora della cabrata più energica per evitare lo schianto. Chiunque sarà il pilota. E non soltanto perché mancano due mesi all’apertura della Porta Santa per il Giubileo della misericordia, ma perché la città (i suoi abitanti, i suoi ospiti, i pendolari, i turisti) deve tornare a una decorosa normalità. Roma merita onesta e decisa cura.
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