mercoledì 6 aprile 2016
​Rapporto dell'istituto Toniolo: timori e ostilità di una generazione, come affrontare la crisi. di Rita Bichi
Giovani, il futuro è la paura da vincere
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Sarà disponibile dal 28 aprile «La condizione giovanile in Italia. Rapporto giovani 2016» (Il Mulino), l’accuratissimo dossier che l’Istituto Toniolo – ente promotore dell’Università Cattolica – realizza dal 2012, col sostegno di Fondazione Cariplo e Intesa Sanpaolo, per seguire l’evoluzione giovanile su temi come famiglia, lavoro, scuola e impegno, e focus tematici tra un’edizione e l’altra. Tre i temi salienti del Rapporto 2016: tempo libero, innovazione e immigrazione, cui è dedicato l’articolo della curatrice, Rita Bichi.​Molti dei più recenti fatti di violenza, che hanno insanguinato l’Europa e posto sotto assedio la pacifica convivenza di intere nazioni, mostrano che diversi giovani possono essere disposti a porre fine alla propria vita e quella degli altri per affermare un’identità ritenuta violata. Si tratta di giovani spesso provenienti da famiglie che hanno vissuto l’esperienza della migrazione, in un’epoca nella quale tale vissuto riguarda, a causa della povertà o della guerra, un grande numero di persone. I Paesi dell’Unione Europea che ospitano il più alto tasso di giovani di origine straniera sono la Germania, il Regno Unito, l’Italia, la Spagna e la Francia. Ed è proprio a questi cinque Paesi che si è rivolta la ricerca del Rapporto Giovani dell’Istituto Toniolo – che monitora, fin dal 2012, la condizione giovanile – nel tentativo di scoprire atteggiamenti e opinioni dei "ragazzi" europei tra i 18 e i 32 anni nei confronti degli immigrati che vivono sul loro stesso territorio. Lungi dal voler affrontare compiutamente temi vasti e complessi come la radicalizzazione alla base di tante morti violente in azioni terroristiche che hanno coinvolto molti giovani, la ricerca porta significativi elementi di riflessione in virtù delle percezioni e del vissuto di una generazione particolarmente interessante da studiare.
I giovani di oggi, infatti, se sperimentano un’elevata mobilità geografica, la possibilità mescolare tratti culturali provenienti da modelli diversi – una mixité che potrebbe essere portatrice di apertura e disponibilità verso l’Altro – vivono però sulla propria pelle una lunga crisi economica e istituzionale che pone forti limiti alla progettualità e costruisce un’incertezza del futuro foriera di possibili atteggiamenti di difesa. I giovani intervistati nei cinque Paesi europei hanno fornito giudizi spesso problematici nei confronti della presenza degli immigrati nella nazione in cui vivono. I risultati evidenziano aperture, ma anche atteggiamenti di difesa e di relativa chiusura: per molti intervistati gli immigrati sono troppi (in Italia la pensa così il 68,8%, il totale nei cinque Paesi arriva al 55,4%); è diffusa la convinzione che gli immigrati possano portare problemi nel Paese di accoglienza (in particolare legati alla criminalità diffusa in Italia, Germania e Spagna, al lavoro nero e ai problemi sociali in Francia e Regno Unito); si rileva che non si possono accogliere indiscriminatamente, anzi, rispetto agli arrivi via mare che hanno costituito nel 2015 la cosiddetta emergenza sbarchi, l’opinione più diffusa è che si debbano accogliere solo i profughi; prevale inoltre la percezione che vi sia, da parte della popolazione nazionale, un atteggiamento diffidente se non ostile nei loro confronti (57,9% in Italia, 57,4% in totale).
A questo proposito, un dato che merita particolare attenzione riguarda chi possiede la nazionalità del Paese nel quale è stato intervistato e che ha almeno un genitore straniero, i quali più di altri hanno la percezione di un’elevata ostilità nei confronti degli immigrati. Significativamente la percentuale, ovunque elevata, è più alta in Francia, dove il 72,3% dei giovani francesi con almeno un genitore straniero ritiene che tale propensione sia di diffidenza o di aperta ostilità. Se si interpreta questa informazione come un segnale di disagio e di integrazione non compiuta, peraltro già presente nelle analisi sin qui effettuate e portato dagli analisti a sostegno di alcune teorie sulla radicalizzazione, sarà necessario approfondire con altre azioni di ricerca la conoscenza di tale condizione, per comprendere meglio i motivi di tale disagio e implementare politiche atte ad affrontare questo problema. A prima vista questi numeri appaiono preoccupanti: vuol dire che i giovani non accettano gli immigrati? Che l’opera di integrazione dei nuovi arrivati sin qui messa in opera ha fallito il suo obiettivo? Innanzitutto è necessario evidenziare che le percentuali riportate sono inferiori a quelle rilevate da ricerche svolte alcuni anni fa e che, pur rimarcando una relativa omogeneità, pure affondano le radici in situazioni nazionali molto diverse tra loro. In particolare, la rilevazione è stata svolta in un periodo di specifica attenzione ai fenomeni migratori, nella quale i cosiddetti sbarchi erano continuamente nell’agenda mediatica e coinvolgevano in prima istanza la situazione italiana, Paese di prima accoglienza in quella fase di emergenza.
Il giudizio espresso dai giovani può non derivare da una posizione contraria tout court alla presenza di persone immigrate, ma essere influenzato dalla generica percezione di rischio e di minaccia portata sia dall’attenzione mediatica che amplifica la portata dei problemi sia dall’esperienza personale dei giovani, che devono far fronte in questi anni a una crisi economica e istituzionale che impedisce loro di progettare compiutamente il futuro, un proprio personale corso di vita, percependo così come rischio e minaccia tutto ciò che potrebbe, anche solo in maniera indiretta, aggravare la propria prospettiva. Tale ipotesi è sostenuta da alcuni altri risultati della ricerca. Intanto dalla relazione contraddittoria tra i giudizi espressi e la frequente sottostima del numero di presenze sul territorio, pure rilevata dalla ricerca: i due dati sembrano smentirsi l’un l’altro se analizzati in sé. Inoltre, i valori più elevati nei giudizi negativi provengono da chi ha un lavoro (è così in quattro paesi su cinque: 71,4% di lavoratori contro il 66,9% di non lavoratori in Italia; 56,4% e 53,2 in Francia; 56,6% e 50,8% nel Regno Unito; 45,4% e 35,1% in Germania), da chi ha un titolo di studio medio-basso (vale per tutti i Paesi) e dalla fascia di età dai 24 ai 29 anni, quella che, con alto grado di probabilità, non ha ancora trovato una sistemazione almeno relativamente stabile nel proprio percorso di vita o che teme di perdere quella forse faticosamente raggiunta: la percezione del rischio si fa più elevata quando le condizioni esterne non lasciano troppo spazio alla serenità derivante dalla possibilità di prevedere, con qualche grado di probabilità, una sistemazione soddisfacente per sé e/o per la propria famiglia. Sono queste alcune delle ragioni che inducono una lettura che mette in primo piano non tanto l’atteggiamento di chiusura nei confronti degli stranieri, quanto la situazione di disagio economico e sociale nella quale i giovani europei si trovano in questi anni così difficili.
Ma ci sono altre ragioni da portare a questa interpretazione: le domande poste rimandano a questioni e problemi di tipo generale che, in gran parte, prescindono dalle interazioni/relazioni di cui soggettivamente ciascuno fa esperienza nella vita di tutti i giorni. I giovani vivono comunque in una realtà nella quale i rapporti con gli stranieri fanno ormai parte della vita quotidiana, nelle famiglie, nelle scuole, nelle strade, sui posti di lavoro anche nei Paesi, come l’Italia, nei quali la presenza straniera è relativamente più recente ma ormai stabilizzata. Questi dati, dunque, non parlano delle relazioni intessute a livello micro, ma dei processi di integrazione che sono strettamente legati alla percezione della situazione economica e sociale, anche legata ai gravi problemi di sicurezza che interessano l’Europa. Sembra, dunque, che non si possano semplicemente attribuire ai giovani europei sentimenti di avversione nei confronti degli immigrati; piuttosto, sentimenti di timore per il proprio futuro, e usare questi numeri come indicatori di disagio, del quale gli immigrati possono essere un riflesso.
Molta strada è ancora da compiere verso l’integrazione e la pacifica convivenza, anche solo approfondendo l’importanza dei media nella trasmissione di modelli culturali e modi di pensare e dunque nella formazione delle opinioni. Nel definire gli atteggiamenti soggettivi nei confronti delle migrazioni e degli immigrati sono infatti rilevanti la propria visione del mondo, i propri valori e convinzioni, la storia personale, la formazione ricevuta, le interazioni esperite nella realtà quotidianamente vissuta. Ma si può ipotizzare che atteggiamenti e percezioni, anche in questo contesto, siano influenzati dai racconti che i media diffondono per descrivere e interpretare il fenomeno dell’immigrazione. La presa d’atto della complessità e della problematicità di questi temi può essere un utile indicatore della necessità di procedere sulla lunga strada della ricerca e dell’approfondimento, della formazione – soprattutto rivolta alle nuove generazioni, a partire dalla famiglia e dalla scuola – della divulgazione di informazioni corrette e della messa in opera di tutti i possibili interventi in favore di una pacifica convivenza.
 
*Ordinario di Sociologia alla Facoltà di Scienze Politiche
e Sociali dell’Università Cattolica del Sacro Cuore
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