lunedì 1 settembre 2014
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​Pochi giorni prima sua morte, nel 397, riprendendo un passo del libro del Qohelet (3,7), sant’Ambrogio scriveva: «C’è un tempo adatto per tutto: un tempo per tacere e un tempo per parlare. Devi tacere quando non trovi un interlocutore disponibile; devi parlare quando il Signore ti concede una lingua sapiente, così da rendere efficace il tuo discorso nel cuore dei tuoi ascoltatori» (Spiegazione del Salmo 43; 72). Il silenzio non sempre è segno di ignavia, debolezza di giudizio e di azione e volontà paralizzata dal timore di reazioni avverse. Né la parola rivela comunque coraggio, franchezza e determinazione che non si lascia intimidire. Non è in gioco solo la natura della questione e la forza o fragilità d’animo: sovente, a dettare il silenzio o la parola sono le circostanze umane. In assenza di interlocutori disposti, se non a dar credito, almeno ad ascoltare le ragioni addotte, le parole non servono e il silenzio è testimonianza di attesa trepida ma operosa, impegno nascosto eppure efficace, docilità a seguire i disegni misteriosi della Provvidenza divina che ultimamente guida la storia, collaborando però fattivamente con essa. Quando le umane circostanze mutano – per timore della realtà in gioco, che sta prendendo spaventosamente il sopravvento, o per amore della verità, che non è più possibile nascondere perché è dinanzi agli occhi di tutti – il tempo è propizio per raggiungere il cuore dei destinatari del messaggio e, allora, occorre parlare apertamente e, se necessario, gridare. A seguito delle vicende che in alcuni luoghi vedono minacciate la fede e la stessa vita dei cristiani e di altre minoranze religiose, si è fatto da parte di alcuni, ma ripetutamente, cenno a una certa "afasia" della Chiesa, quasi che essa non sapesse bene cosa e come dire, e avesse scelto di tacere pur di non compromettere il dialogo con tutte le parti in causa, invitando alla sola orazione, come se si fosse seduta dinanzi alla finestra ad aspettare lo svolgersi degli eventi, confidando in un mutamento delle sorti dei fratelli e delle sorelle perseguitati, come se papa Francesco non avesse richiamato con costanza e amore di padre e di fratello che «oggi ci sono più testimoni, più martiri nella Chiesa che nei primi secoli» della vicenda del popolo cristiano, come se i vescovi d’Italia non avessero invitato credenti e non credenti alla preghiera, alla riflessione e alla solidarietà con i perseguitati. Il tempo della preghiera non ha termine. Il tempo del silenzio, mai totale del resto, ma calibrato nella paziente e instancabile ricerca di canali di ascolto sulle lunghezze d’onda degli interlocutori internazionali e di spiragli di volontà sinergiche per affrontare la difficile e delicata situazione di troppi cristiani d’Asia e d’Africa, ha infine ceduto il passo a quello della parola incalzante e dell’appello pressante. Alle espressioni del Papa, con la ferma condanna per le violenze e l’intolleranza con le quali «i nostri fratelli sono perseguitati, sono cacciati via, devono lasciare le loro case senza avere la possibilità di portare niente con loro, [...] spogliati di tutto», ha fatto eco la voce del cardinale Bagnasco al Santuario della Madonna della Guardia di Genova. Di fronte alla «crudele persecuzione che tormenta e uccide tanti cristiani e altre minoranze religiose» a opera degli jihadisti – ha affermato il presidente della Cei – «la nostra coscienza deve ribellarsi. Dobbiamo a una voce gridare che sono crimini contro l’umanità. Dobbiamo gridare che se dalla comunità internazionale non si leva univoca, chiara, forte e insistente la condanna e la presa di distanza dalla inaccettabile vergogna, è un atto di viltà imperdonabile». Parole limpide, realistiche e ragionevoli, senza accenti di vittimismo né venature di vicende del passato che gettino ombre sul presente. Un giudizio sui fatti presenti, non sulle intenzioni di ieri o di oggi, e questo basta. Il pastore della Chiesa universale e di quella particolare italiana non hanno mancare di farci udire, forte e accorata, la loro voce. È così tolto ogni alibi alla coscienza dei cristiani e dei non credenti. «Non possiamo tacere davanti al progetto in atto di cancellare la presenza cristiana dalla Terra Santa come da altri luoghi. Sarebbe abbandonare non solo tanti fratelli che soffrono per la fede, ma anche sarebbe abbandonare l’umanità alla barbarie», ha concluso l’arcivescovo di Genova. Per la buona pace di tutti, ora tocca a ognuno di noi uscire allo scoperto, perché – come ricordava il santo papa Giovanni XXIII – non ci può essere pace senza convivenza nella verità, nella giustizia, nell’amore e nella libertà.
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