venerdì 27 febbraio 2015
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​Che cosa avrà avuto in cuore quella madre, una donna rumena, raccogliendo le poche cose di suo figlio in una valigia e partendo con lui per l’Italia, sapendo bene che a casa sarebbe tornata senza di lui? Con che animo avrà chiuso la porta, conscia che non sarebbe più rientrato? E a lui, al suo bambino, che cosa avrà spiegato? Perché forse gli avrà detto di salutare per l’ultima volta il padre e i fratelli, prima di cedere alla miseria nera, quella che affama ma ancor più anestetizza i sentimenti, e di venderlo a una ricca coppia di italo-svizzeri.Un dramma emerso ieri in Sicilia, dove il traghetto è approdato a Messina con a bordo il piccolo, sua madre e la coppia di italiani. Se non che i carabinieri erano già lì, pronti ad arrestare gli otto adulti, tutti in maniera diversa complici e colpevoli di quel turpe baratto: un essere umano indifeso in cambio di trentamila euro. In carcere sono finiti i due coniugi acquirenti, la madre e il fratello maggiore del bambino, i pregiudicati messinesi autori della tratta e i loro intermediari italiani. Un’operazione “brillante”, come si usa dire, cui i militari dell’Arma sono arrivati intercettando le telefonate in un’indagine su un traffico di auto rubate. Quale allora la loro sorpresa quando, durante una di queste telefonate, si sono resi conto che il «pacchetto» di cui si parlava non era una macchina ma un figlio. Perché così i trafficanti chiamavano Angelo (nome di fantasia), «pacchetto», o in alternativa «cosetto».E quel pacco, quella cosa, non sapeva di avere il destino già segnato dalla nascita, se è vero che la coppia di ricchi acquirenti, abituati a pensare che il denaro compra tutto, fin dal 2008 aveva dichiarato la nascita di un figlio “fantasma”, in realtà mai esistito, pre-meditando con agghiacciante cinismo quel baratto avvenuto solo adesso. Così si spiega anche la strana scelta di “comprarsi” un bambino in fondo attempato, forse difficile da “far affezionare”, che solo con gli anni avrebbe finalmente dimenticato il volto di quella madre che un tempo lo aveva tenuto per mano salendo su una nave bianca e poi si era dissolta fino a confondersi con un pallido sogno.Non chiamiamolo amore, non "desiderio di avere un figlio": la ricca coppia siciliana, che in Svizzera gestisce alberghi e night club, e ha già una figlia maggiorenne, non volendo perder tempo con procedure legali di adozione, si è rivolta ai due ladri di auto, che a loro volta hanno coinvolto i complici in Romania. Pago e compro, pago e ho diritto. Nessuna pena per quel figlio preteso, non un attimo di compassione pensando che anche lui, come ogni bambino, amava sua mamma e l’avrebbe invocata per giorni e notti, disperato e impaurito. E che cosa gli avrebbero spiegato, una volta in Svizzera? Che se n’era andata abbandonandolo con loro, che era cattiva ed era meglio dimenticarla, che gli conveniva il prima possibile affezionarsi a loro, i nuovi padroni, perché se compri una cosa questa è tua... Lo avrebbero consolato, certamente, comprando (di nuovo questo verbo) i suoi sorrisi: è facile – si saranno detti – con un bambino così povero che non ha avuto mai un vestito nuovo, figuriamoci un iPad.Perché è questa, infatti, la vigliaccata: il sottile ricatto del ricco verso il povero. Per nera miseria la mamma di Angelo ha accettato di cederlo ad altri, forse ascoltando chi le diceva che con quei signori sarebbe stato meglio. La stessa nera miseria che convince altre madri, tutte del Terzo Mondo, a separarsi dal figlio non appena lascia il loro grembo: utero in affitto, lo chiamano, come fosse un lecito commercio, un contratto alla pari, tu produci io ti pago. Ma il “prodotto” (il “cosetto”, il “pacchetto”) è un figlio. E nessuna madre arriverebbe a venderlo se non fosse sadicamente sfruttata nella sua povertà.Certo mondo ricco lo chiama “diritto”: infastidito da quell’“utero a noleggio” troppo realista, preferisce parlare di “madre portante” o “gestazione di sostegno”. Lo denuncia la più bella, e non a caso la meno pubblicata, tra le vignette di Charlie: una donna nera, gravida, è tenuta al guinzaglio da due opulenti gay occidentali. Loro sorridono con fare filantropico e si definiscono genitori, lei spezza l’ipocrita eufemismo: «Io sono una schiava». Schiava lei, schiavo il suo bambino: che sia comprato al concepimento o invece a otto anni.
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