giovedì 28 maggio 2015
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​«Se avessimo applicato rigidamente le procedure, il ragazzo sarebbe morto». Colpiscono le parole del responsabile della Rianimazione dell’ospedale San Raffaele di Milano. Colpiscono, perché riguardano la storia di un quattordicenne che, invece, è vivo. Mentre, stando ai protocolli previsti per le tecniche rianimatorie, non dovrebbe esserlo. La storia di Michi comincia il 24 aprile scorso, una giornata molto calda, troppo, per essere di aprile. Forse per questo quel pomeriggio cinque ragazzini a Cuggiono, a venti chilometri da Milano, decidono di fare un tuffo nel Naviglio Grande. Si buttano, riemergono, ridono, l’acqua è gelata. Ma uno di loro, Michi, 14 anni, non torna in superficie. Se ne accorgono gli amici, si rituffano in quell’acqua fredda, a cercarlo. Il ragazzo è rimasto incastrato con un piede nel fondale. Disperatamente i compagni cercano di liberarlo, mentre qualcuno chiama il 118. Quando i sommozzatori dei Vigili del fuoco riescono a strappare Michi dal Naviglio, è stato sott’acqua per 42 minuti. Un’eternità. È in arresto cardiaco, ma la rianimazione suscita un flebile battito. La madre, a riva, assiste impietrita ai tentativi dei soccorritori. Forse, quando vede il figlio riemergere esanime dall’acqua, lo pensa già morto. Ma un elicottero porta Michi al San Raffaele. Dove l’equipe diretta dal professor Alberto Zangrillo, in aderenza ai protocolli conosciuti, potrebbero dire: il ragazzo è stato troppo tempo sott’acqua, ci dispiace. E, invece, al San Raffaele osano. Attaccano il ragazzo all’Ecmo, la macchina che permette una circolazione extracorporea. Alla madre dicono: c’è una possibilità su un milione – eppure, provano. Lentamente in un mese il paziente riprende conoscenza, fino a essere lucido, il ragazzo di prima. Hanno dovuto amputargli una gamba sotto al ginocchio, ma lui, Michi, è vivo, scherza, e chiede della Juve.Un caso unico, che potrebbe portare a rivedere i parametri estremi della rianimazione. Per la madre, credente, ciò che è successo è «un percorso miracoloso». Senza nulla togliere allo straordinario lavoro dei medici: «Michi è rimasto nelle mani di Dio e dei medici e ognuno, per le sue capacità, ha dato il massimo».Ognuno ha dato il massimo. Gli uomini, non sottostando ciecamente a regole scientifiche che pretendono di essere assolutamente esatte, ma a volte, evidentemente, non lo sono. E Dio, anche, ha fatto il massimo. Forse commosso dalla ostinatissima speranza suscitata da un ragazzino che pareva morto, nel primo giorno caldo di primavera. Dalla gara degli uomini a tentare ogni strada, ogni spiraglio – benché i protocolli negassero che quel tentativo avesse senso. Un vortice di speranza e di tenacia si è sviluppato, quel pomeriggio sul Naviglio Grande – e se vedete in tv la faccia della madre di Michi, ne scorgete la traccia. Immaginatevi una donna sulle rive di un canale, e il figlio poco più che bambino rimasto sotto, e i minuti che scorrono drammaticamente, e niente, e nessuno riesce a riportare il ragazzo in superficie. Poi, finalmente, ce la fanno, ma è tardi. 42 minuti sono maledettamente tanti, se il cuore resta fermo. Quella madre aspetta solo un verdetto di morte, e invece le dicono: è quasi impossibile, ma tentiamo.Nato due volte: è come se fosse rinato quel figlio, in un letto d’ospedale. Miracolo? Il miracolo è una guarigione scientificamente inspiegabile. Qui, invece, la scienza medica si è spinta oltre i suoi stessi limiti, e ha ottenuto uno straordinario risultato. Il miracolo, forse, è nell’audacia e nella tenacia con cui si è fatto di tutto, quasi più del possibile; il miracolo è stato la forza di sperare, contro ogni ragionevolezza. E una madre che credeva il figlio morto, catturato dalle acque infide del Naviglio, e ora lo riabbraccia. Gli uomini, e Dio, glielo hanno restituito.
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