venerdì 2 ottobre 2015
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Un altro giro a vuoto. Addirittura il ventiseiesimo, in un caso; il quinto e il terzo negli altri due. Non diamo i numeri, parliamo dell’incapacità che il Parlamento sta dimostrando – ormai da circa un anno, con lunghe battute d’arresto anche in precedenza – di adempiere il proprio compito di elettore dei giudici della Corte Costituzionale. Ne mancano tre. Ieri, sotto il maestoso fregio dipinto da Giulio Aristide Sartorio che incornicia l’aula di Montecitorio, deputati e senatori non hanno saputo fare altro che produrre la solita girandola di schede bianche e nomi di circostanza. Già prima di cominciare si sapeva che la votazione non avrebbe dato frutto nemmeno stavolta. Ma così il rito istituzionale ne esce svuotato di contenuto e perfino della solennità che richiederebbe e meriterebbe.L’ultima nomina avvenuta con successo (quella di Silvana Sciarra, indicata dal Pd) risale al novembre del 2014. In quell’occasione non raggiunse il quorum di 570 voti Stefania Bariatti, candidata da Forza Italia. Da allora altri due giudici costituzionali di nomina parlamentare hanno chiuso il loro mandato – uno, Sergio Mattarella, in anticipo in quanto eletto presidente della Repubblica – e così, attualmente, l’alta Corte è composta di soli dodici giudici. Tre in meno, appunto, rispetto al plenum di quindici stabilito dalla Costituzione. E appena uno sopra la soglia minima che consente alla Consulta di funzionare: con meno di undici componenti non può deliberare.Per di più, i giudici mancanti sono tutti di nomina parlamentare. Non è questione di poco conto, anche se i mesi trascorrono senza che nessuno si prenda la pena di porre la questione tra le priorità dell’agenda politica. La Consulta è infatti il "giudice delle leggi", stabilisce quali siano conformi alla Carta e quali la violano: quando una norma è dichiarata illegittima, cessa di vivere il giorno dopo la pubblicazione della sentenza. E le norme, direttamente o indirettamente, incidono sulla vita di ciascuno di noi. Un potere e una responsabilità enormi, dunque. Ma la Corte è anche l’arbitro dei conflitti che insorgono tra i poteri dello Stato (per esempio tra lo stesso Parlamento e la magistratura, come non di rado accade in materia di insindacabilità dei senatori e dei deputati) e tra lo Stato e le Regioni. Anzi, è proprio quest’ultimo contenzioso una delle principali occupazioni della Corte dal 2001, da quando cioè la riforma del Titolo V della Costituzione ha riconosciuto maggiore autonomia e attribuito poteri più estesi alla Regioni.E fa riflettere il fatto che ieri, per riunirsi invano in seduta comune con la Camera, il Senato abbia interrotto le votazioni sulla riforma della Costituzione che in questi giorni riempiono di polemiche giornali, web e tg. Perché il nodo più contrastato del ddl costituzionale, ironia della sorte, riguarda proprio la trasformazione del Senato della Repubblica in Senato delle Regioni. Il quale dovrebbe conservare comunque, in base ai più recenti accordi interni alla maggioranza, la facoltà di nominare due giudici costituzionali. Anche in questo caso, come avvenne 69 anni fa alla Costituente, si tratta di operare un bilanciamento tra i vari poteri in campo, perché il giudice delle leggi e dei conflitti di attribuzione deve garantire il massimo dell’equilibrio. Fu questo lo spirito che indusse i padri costituenti a stabilire che i suoi membri debbano essere scelti per un terzo dal presidente della Repubblica, per un terzo dal Parlamento e per un terzo dalle magistrature ordinaria e amministrative. Lasciare la Corte Costituzionale incompleta così a lungo nella sua componente nominata dal Parlamento, organo elettivo che rappresenta la sovranità del popolo, significa negare agli italiani un frammento importante, e dovuto, di garanzia. La Costituzione si può anche cambiare, ma prima di tutto si deve rispettare.
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