venerdì 7 settembre 2012
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I modi di fare bioetica sono molti e tra di loro ben diversi: c’è la bioetica dei filosofi e dei teologi, la bioetica dei medici e quella degli scienziati, la bioetica dei giuristi e dei politici e da qualche tempo, a ragione, anche la bioetica degli storici. Esiste pure, e va presa molto sul serio, più di quanto comunemente non si faccia, la bioetica pastorale.I diversi interventi del cardinal Martini in tema di bioetica (e aggiungerei anche in tema di famiglia, ma questo è un altro discorso), interventi affidati in genere ad interviste, più che alle riflessioni doverosamente organiche e strutturate, proprie della bioetica filosofico-teologica, hanno tutti un carattere pastorale. La dimostrazione è data dalla delicatezza con la quale egli li ha proposti, dalla pensosità del suo ragionare, dal costante – implicito, e ancor più spesso esplicito – riferimento alla parola di Dio, per come essa opera nel cuore dell’uomo, che accetti di ascoltarla, e soprattutto dalla sua stessa identità di vescovo e quindi di pastore, mosso a trattare temi di bioetica non nella qualità di studioso, di titolare di cattedra, di direttore di un istituto di ricerca o di responsabile di un dicastero della Santa Sede, ma appunto nella sua qualità di pastore, quella che ha colpito nel profondo le migliaia e migliaia di credenti e non credenti che ne hanno pianto la morte.Una bioetica pastorale non può mai essere fredda, dura, severa, tagliente, come a volte (ma fortunatamente non sempre) deve pur essere il pensiero teorico-dottrinale. Il vero pastore è colui che si pone alla sequela di Cristo, che definiva se stesso «mite e umile di cuore». Il vero pastore non è tale, solo perché governa severamente il gregge, ma perché si fa carico di tutte le sue pecore, soprattutto di quelle che si smarriscono. Ecco perché leggere i tanti interventi del cardinal Martini sulle questioni più cruciali della bioetica, come se essi avessero un carattere teologico e dottrinale, interpretandoli come auspici di nuove biopolitiche legislative, è assolutamente inaccettabile. Ed ecco soprattutto perché i tentativi di strumentalizzare biopoliticamente la malattia terminale e la morte del cardinale sono ingiustificabili. La bioetica pastorale è qualcosa di grande, ma non può in quanto tale fornire argomenti alla riflessione biogiuridica e biopolitica: sia perché in questo modo si inquinerebbe il doveroso carattere laico del dibattito bioetico (che deve concernere tutti, credenti e non credenti), sia soprattutto perché la bioetica pastorale deve sempre essere finalizzata al singolo e al suo cuore, mentre la biogiuridica e la biopolitica devono avere un carattere "pubblico", devono cioè rispettare l’ammonimento aristotelico, quello per il quale tutte le leggi (anche e soprattutto quelle «eticamente sensibili») devono essere il frutto di una «ragione senza passione».Una pastorale che partisse dai dettami di una ragione senza passione sarebbe ben poca cosa e tradirebbe se stessa, perché non arriverebbe mai a parlare al cuore degli uomini. Ecco perché dobbiamo rendere omaggio al cardinal Martini, bioeticista perché pastore, senza pretendere di trasformare le sue istanze pastorali in proposte biogiuridiche e biopolitiche, come egli non ha mai preteso di fare.
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