lunedì 28 ottobre 2013
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Non conosciamo più la povertà e non la riconosciamo, perché ci siamo dimenticati che nasciamo nella povertà assoluta e che termineremo la vita in una povertà non meno assoluta. Ma se guardassimo bene ci accorgeremmo che la nostra intera esistenza è una tensione tra il volere accumulare ricchezze che colmino questa indigenza antropologica radicale, e la consapevolezza, che cresce con gli anni, che l’accumulo di merci e denaro è solo una risposta parziale, e nell’insieme insufficiente, al bisogno di ridurre le vere vulnerabilità e fragilità dalle quali proveniamo, per sconfiggere la morte. Una consapevolezza che è massima quando (e se) pensiamo a come termineremo la nostra esistenza, nudi come vi siamo venuti entrandovi, quando le ricchezze e i beni passeranno, e di noi resterà – se resterà – altro.C’è questa intuizione dietro la scelta di chi decide di diminuire denaro e merci perché scopre che la decrescita di alcune ricchezze consente la crescita di altri beni generati da quella nuova e diversa povertà scelta. È questo l’itinerario spirituale ed etico di Gesù Cristo («Da ricco qual era si è fatto povero, per arricchirci con la sua povertà») e, poi, fatto proprio da Francesco, da Gandhi, da Simone Weil, e da tanti altri giganti di umanità e di spiritualità che con la loro povertà scelta hanno arricchito, e continuano ad arricchire, la vita sulla terra, soprattutto quella di milioni e milioni di poveri che la povertà non l’hanno scelta, ma solo subita.Accanto a questi grandi amanti della povertà-liberante e profetica, stanno molti altri uomini e donne, di ieri e di oggi (e di domani). Moltissimi li troviamo tra i poeti, le suore, i missionari, i cittadini responsabili, persino tra giornalisti, imprenditori e politici. Senza scegliere di diventare poveri di potere, di ricchezze, di se stessi, non si possono condurre lunghe ed estenuanti lotte di giustizia, che possono portare anche a dare la vita, persino a morire, per quegli ideali. Solo questi poveri possono donare la loro vita per gli altri, perché non la considerano un geloso possesso. Chi non è capace di donare la propria vita per gli ideali in cui crede, considera ben poca cosa quegli ideali e la propria vita. Qualcosa della complessa semantica della povertà ce la dischiude l’economista iraniano Rajiid Rahnema, quando in una sua bella pagina distingue tra diverse forme di povertà: «Quella scelta da mia madre e da mio nonno sufi, alla stregua dei grandi poveri del misticismo persiano; quella di certi poveri del quartiere in cui ho passato i primi dodici anni della mia vita; quella delle donne e degli uomini in un mondo in via di modernizzazione, con un reddito insufficiente per seguire la corsa ai bisogni creati dalla società; quella legata alle insopportabili privazioni subite da una moltitudine di esseri umani ridotti a forme di miseria umilianti; quella, infine, rappresentata dalla miseria morale delle classi possidenti e di alcuni ambienti sociali in cui mi sono imbattuto nel corso della mia carriera professionale».Ed è qui che si apre un discorso cruciale, e troppo taciuto, sulle povertà. La povertà cattiva (ad esempio le ultime quattro forme di Rahnema), quella che dovremmo presto estirpare dal pianeta, è prima di tutto un’assenza di "capitali" che impedisce la generazione di "flussi" (tra cui il lavoro e il suo buon reddito) che ci consentono poi di svolgere attività fondamentali per vivere una vita degna, e magari bella. Se guardiamo le tante, crescenti, forme di povertà non scelta e subita nelle quali si trovano intrappolate le persone (ancora troppe nel mondo, e ancora troppe donne, troppi bambini, tantissime bambine), ci accorgiamo, o dovremmo accorgerci, che le situazioni di indigenza, precarietà, vulnerabilità, fragilità, insufficienza, esclusione – che sono il frutto della mancanza di capitali non solo e non tanto finanziari, ma relazionali (famiglie e comunità spezzate), sanitari, tecnologici, ambientali, infrastrutture, sociali, politici, e ancor più educativi, morali, motivazionali, spirituali; carestie di philia, di agape.Per capire allora quale tipo di povertà sperimenta una persona che viene definita povera (perché possiede meno di uno o due dollari al giorno), sarebbe fondamentale guardare ai suoi capitali, e a se e come quei capitali diventano flussi. E a quel livello intervenire. Potremmo così scoprire – se guardiamo bene – che vivere con due dollari al giorno in un villaggio con acqua potabile, senza malaria, con una buona scolarizzazione di base, è una povertà molto diversa da quella in cui si trova chi vive con due (o anche 5) dollari al giorno, ma che questi capitali non possiede, o ne possiede di meno. Come ci sta insegnando da decenni l’economista e filosofo indiano Amartya Sen, la povertà (cattiva) consiste nel non essere nelle condizioni – anche sociali e politiche – di poter sviluppare le proprie potenzialità, che così restano incagliate in capitali troppo bassi, che impediscono che il viaggio della vita sia lungo abbastanza, non troppo accidentato e doloroso.Quindi la povertà, ogni povertà, è molto di più, e qualcosa di diverso, dall’assenza di denaro e di reddito, come possiamo vedere anche nei casi drammatici quando perdiamo il lavoro e non ne troviamo un altro perché non siamo in possesso di "capitali" che sarebbero fondamentali (non solo un’istruzione alta, ma anche l’aver appreso negli anni giusti un mestiere).I capitali delle persone e dei popoli, quindi le ricchezze e le povertà, sono sempre intrecciati fra di loro. Alcuni capitali, ricchezze e povertà, sono più decisivi per la fioritura umana, ma, tranne casi estremi (anche se rilevantissimi), nessuno è povero al punto di non avere anche qualche forma di ricchezza. Questo intreccio fa del mondo un luogo forse meno ingiusto di quanto sembri a prima vista, stando però sempre molto attenti a non cadere nella "retorica della povertà felice", che spesso si rintraccia in chi loda indigenze di altri stando comodamente in ville lussuose, o passando con auto blindate nelle periferie delle città del Sud del mondo in forme – a volte equivoche – di "turismo sociale". Prima di poter parlare della povertà bella occorre guardare bene negli occhi quelle brutte, e possibilmente assaggiarne qualche boccone. Ma la consapevolezza del rischio, sempre reale, di cadere nella retorica borghese della lode della bella povertà (quella di altri, mai conosciuti né toccati), non deve spingersi fino a cancellare una verità ancora più profonda: ogni processo di uscita da trappole di miseria e di indigenza comincia sempre dal valorizzare quelle dimensioni di ricchezza e di bellezza presente in quei "poveri" che si vorrebbero aiutare. Perché quando non si parte dal riconoscimento di questo patrimonio spesso sepolto ma reale, i processi di sviluppo e di "capacitazione" dei "poveri" sono inefficaci se non dannosi, perché manca la stima dell’altro e delle sue ricchezze, e quindi l’esperienza della reciprocità delle ricchezza e delle povertà.Ci sono molte povertà dei "ricchi" che potrebbero essere curate dalle ricchezze dei "poveri", se solo si conoscessero, si incontrassero, si toccassero. E se non ricominceremo a conoscere e riconoscere la povertà, tutte le povertà, non potremo tornare a fare buona economia, che risorge sempre dalla fame di vita e di futuro dei suoi poveri.
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