martedì 15 novembre 2011
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Ci sono cifre che non vengono più strillate sui media, coperte come sono dal fragoroso impennarsi degli spread, ma che non per questo sono meno drammatiche. Si tratta dei tassi di occupazione, mai così bassi nel nuovo secolo. Della disoccupazione, a malapena contenuta. Del precariato ormai endemico. Peggio: dell’inattività divenuta sistemica. Non indici freddi, ma istantanee roventi della realtà, fotografie drammatiche, nelle quali sono fissati volti, persone giovani e anziane, famiglie e interi pezzi d’Italia. E allora, per il governo che si appresta a prendere forma, tra le emergenze da affrontare c’è una missione che merita di essere considerata con appassionata dedizione: il lavoro.In questi tre anni di crisi – grazie a un uso sapiente e massivo della cassa integrazione da parte dell’esecutivo uscente – si è riusciti a contenere l’ondata di esuberi e licenziamenti che ha caratterizzato la gran parte delle economie europee e mondiali. Ma la rete di protezione, pur allargata, non ha coperto tutti allo stesso modo. I giovani, gli autonomi, i diversi parasubordinati, hanno pagato per primi e a prezzo più caro, la recessione: restando senza posto e senza ammortizzatori.Quasi un terzo dei giovani è disoccupato, ma quel che è peggio, da noi solo 1 ragazzo su 5 lavora. In Germania sono 1 ogni 2, in Francia 1 su 3, persino in Spagna, che pure detiene il record europeo della disoccupazione, va un po’ meglio con 1 ogni 4. Ci sono poi 2,2 milioni di persone del tutto inattive: non studiano né lavorano né sono inserite in un programma di formazione. Altri 2 milioni e 764mila italiani – per più della metà donne – pur essendo disponibili a lavorare non cercano più un posto, perché sono scoraggiati. E ancora ci sono i sottoccupati. E quelli che l’Istat classifica come occupati, ma hanno lavorato solo 1 ora nella settimana di rilevazione. E ancora cifre e ancora analisi che portano a conclusioni univoche: non possiamo permetterci un così basso numero di cittadini che lavorano e non possiamo più accettare disparità di trattamento tanto forti.Il lavoro va assolutamente rilanciato, rivalorizzato, riportato al centro dell’azione politica. Sì, politica. Anche nell’era di un governo ad alto tasso tecnico come quello al quale Mario Monti sta lavorando in queste ore. Le ultime misure adottate dall’esecutivo Berlusconi sull’apprendistato – contratto a tempo indeterminato con contenuto formativo e una flessibilità limitata ai primi anni – vanno nella direzione giusta. Ma non bastano: è necessario (ri)costruire un mercato del lavoro dove anzitutto non ci siano lavori di serie A per gli italiani e di serie B per gli stranieri, dove le occupazioni manuali abbiano pari dignità e valore e prevedano un salario equo rispetto a quelle intellettuali. Nel quale alle attività in nero si fa una lotta serrata come e, se possibile, di più che all’evasione fiscale. Un mercato, con ammortizzatori sociali universali, senza apartheid per i giovani e che non discrimini gli "anziani". Perché – e le imprese debbono assumersene la responsabilità – non si può spingere per l’innalzamento dell’età pensionabile e contemporaneamente considerare obsoleto o troppo costoso un dipendente cinquantenne.Sono risposte, queste all’emergenza lavoro, che dobbiamo a noi stessi, assai prima che ai mercati finanziari. Perché dietro quelle cifre sull’occupazione ci siamo noi, ci sono i nostri ragazzi. Senza retorica, c’è il futuro di questo Paese, del Nord e del Sud assieme. E non c’è speculatore, non c’è istituzione internazionale, per quanto autorevole, che possa imporci cosa vogliamo essere, quale Paese vogliamo diventare.Non abbiamo bisogno di ricette preconfezionate, di modelli da applicare pedissequamente, di trofei ideologici da ostentare. Soprattutto non possiamo invertire l’eventuale approdo finale con la mossa di partenza. Abbiamo competenze e disponibilità, abbiamo forze sociali ormai abbastanza riformiste e consapevoli della portata della sfida per poter rimodellare con un progetto originale il nostro modello di coesione sociale. Agendo con rigore ed equità, favorendo sì lo sviluppo ma solo attraverso l’inclusione.
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